Civile

L'avvocato che recede dal mandato (anche senza giusta causa) conserva il diritto al compenso

Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 23077/2022, affermando che spetta al cliente provare l'eventuale diritto al risarcimento del danno

di Francesco Machina Grifeo

Diversamente da quanto previsto dalla disciplina generale sulle professioni intellettuali (art. 2237 c.c.), l'avvocato può recedere dal mandato professionale anche in assenza di una giusta causa e conserva il diritto agli onorari relativi all'attività svolta fino al momento del recesso. Salvo il risarcimento del danno di cui tuttavia il cliente deve provare l'esistenza. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 23077/2022, respingendo sotto questo profilo il ricorso di una Srl in liquidazione nei confronti di un legale.

La società destinataria di un decreto ingiuntivo del tribunale di Firenze che intimava il pagamento del professionista, aveva eccepito "l'inadempimento grave degli avvocati per avere receduto senza giusta causa dal mandato professionale" in violazione delle norme del codice civile e dunque affermava che nessun compenso era dovuto.

Per la Suprema corte tuttavia la soluzione del Tribunale è incensurabile. Va infatti richiamata la "specificità della disciplina dettata per l'attività dell'avvocato, volta appunto a derogare alla previsione di carattere generale dettata dal citato art. 2237 c.c.2". L'art. 85 c.p.c., prosegue la decisione, dispone, ancorché al fine di limitare i disagi provocati dalla rinuncia alla controparte, che «la procura può essere sempre revocata e il difensore può sempre rinunciarvi, ma la revoca e la rinuncia non hanno effetto nei confronti dell'altra parte finché non sia avvenuta la sostituzione del difensore». In tal modo dunque sottendendo che il recesso dell'avvocato dal mandato "è sempre ammessa, e non quindi necessariamente ancorata alla ricorrenza della giusta causa".

Nello stesso senso va anche l'art. 7 della legge 13 giugno 1942 n. 794 che, con riguardo proprio alla disciplina del corrispettivo per le cause non giunte a compimento stabilisce che «per le cause iniziate ma non compiute ovvero nel caso di revoca della procura o di rinuncia alla stessa il cliente deve all'avvocato gli onorari corrispondenti all'opera prestata», senza dunque operare "alcun richiamo alla necessità della giusta causa".

In linea con tale scelta si pone anche la disciplina dell'art. 32 del codice deontologico forense in materia di "Rinuncia al mandato". "L'avvocato - si legge - ha la facoltà di recedere dal mandato, con le cautele necessarie per evitare pregiudizi alla parte assistita". Si prevede poi che l'avvocato dia un "c ongruo preavviso" e informi la parte "di quanto necessario per non pregiudicarne la difesa". Adempiute le formalità relative alla comunicazione "l'avvocato è esonerato da ogni altra attività, indipendentemente dall'effettiva ricezione della rinuncia". E "non è responsabile per la mancata successiva assistenza, qualora non sia nominato in tempi ragionevoli altro difensore". Infine, conserva l'obbligo di informare la parte delle "comunicazioni e notificazioni che dovessero pervenirgli".

Per la Suprema corte "risulta quindi confermata la soluzione circa la libera recedibilità dal mandato anche ad opera dell'avvocato, il quale è tenuto sempre a preservare il cliente da pregiudizi derivanti dalla propria decisione di recedere dal rapporto d'opera".

La Cassazione cita poi un lontanissimo precedente (n. 1380/1959), secondo cui l'assenza di giusti motivi "non può costituire in colpa il patrono che dismetta il mandato". Ancorché, prosegue la decisione, "il principio non sia stato riaffermato in tempi recenti in maniera così netta", nella medesima direzione va anche l'affermazione secondo cui il diritto di recesso "deve essere esercitato in modo da non arrecare pregiudizio al cliente e che, nel caso in cui non sussista una giusta causa, il difensore è tenuto al risarcimento del danno di cui il cliente abbia provato l'esistenza" (Cass. 16 marzo 2011 n. 6170).

E ancora, la decisione richiama la previsione dell'art. 7 del RD n. 794/1942, secondo cui nei giudizi iniziati ma non conclusi il "cliente deve al proprio avvocato gli onorari ed i diritti per l'opera svolta fino alla cessazione del rapporto, sia nell'ipotesi di giudizi non compiuti per ragioni processuali sia nei casi di giudizi giunti regolarmente a termine ma non compiuti dal professionista per revoca o rinuncia al mandato" (Cass. 06 ottobre 2000 n. 13329).

In definitiva, conclude la Corte, "l'art. 85 c.p.c. e l'art. 7 L. 794/42 sono espressione di una disciplina derogatoria, per i professionisti intellettuali che svolgono la professione di avvocato, rispetto a quella generale dell'art. 2237 c.c., per effetto della quale è permesso all'avvocato di recedere dal mandato professionale anche in assenza di una giusta causa - salvo, in tal caso, il risarcimento del danno di cui il cliente provi l'esistenza, di cui però non si controverte nel caso di specie, in assenza di allegazione da parte della cliente - riconoscendo al difensore il diritto agli onorari relativi all'attività svolta fino al momento del recesso".

Il ricorso è stato invece accolto sotto un altro profilo. La decisione impugnata infatti, prosegue la decisione, non risulta corretta "laddove ha applicato in via analogica la previsione contrattuale sulla determinazione del compenso dell'avvocato dettata per il caso in cui il processo si fosse chiuso prima dell'istruttoria, ritenendosi applicabile, appunto per analogia anche all'ipotesi qui in esame in cui non sia intervenuta una definizione anticipata dal processo, ma sia piuttosto avvenuta una cessazione del rapporto professionale per la decisione di recedere da parte del professionista".

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©