Casi pratici

Abuso di correzione e maltrattamenti in famiglia

Lo "jus corrigendi", tra il lecito e l'illecito

di Claudio Coratella

la QUESTIONE

In quali casi lo "jus corrigendi" sconfina nell'abuso dei mezzi di correzione? E quando il delitto di abuso di mezzi correttivi si "trasforma" nel più grave reato di maltrattamenti in famiglia?


Educare "correggendo" è possibile, ma il mezzo usato deve essere lecito e scevro da qualsivoglia connotato aggressivo che possa in qualche modo ledere o turbare il corpo e/o la mente della persona cui l'insegnamento è diretto. In quel caso, l'uso del mezzo educativo trasmoderà in abuso del mezzo stesso e, dunque, in una condotta penalmente rilevante.
È sufficiente aprire il Codice penale, all'art. 571, per leggere che «Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l'esercizio di una professione o un'arte, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi. Se dal fatto deriva una lesione personale, si applicano le pene stabilite negli artt. 582 e 583, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto anni».
La norma, inserita nel Titolo XI, Libro II, Capo IV, dedicato ai delitti contro l'assistenza familiare ha di sovente animato discussioni dottrinali e giurisprudenziali.
In primis, se ne è obiettata la collocazione, posto che se nell'apparato del Codice Zanardelli essa era ricondotta tra i delitti contro la persona, nel Codice Rocco diviene formulazione tesa a garantire un lecito utilizzo dei poteri assistenziali, pur se di fatto rivolta a normare fattispecie ben più ampie.
In effetti, come si evince dalla lettera dell'articolo - e come si desume dalla relazione al progetto definitivo - l'intento del Legislatore penale era quello di una tutela estesa all'integrità o comunque all'incolumità fisica della persona (con riferimento non solo al minore o all'educando, ma a ogni soggetto sottoposto o affidato, anche per lavoro, all'altrui cura o vigilanza).

I mezzi correttivi
Ciò chiarito, si vorrà spostare l'attenzione sull'espressione, alquanto fumosa, di «mezzi correttivi».
La scelta relativa all'utilizzo di tale terminologia non è casuale.
Non lo è per un preciso fine: quello di rendere il precetto elastico, adeguabile all'evolversi del mutevole contesto sociale o della peculiarità del rapporto (familiare, lavorativo...) di volta in volta riscontrato. Si trae conferma dell'assunto, dall'evolversi delle pronunce di legittimità e di merito, sulla cui base è possibile delineare un tracciato che conduce a conclusioni nettamente difformi da quelle contenute in risalenti decisioni.
Si ricorderà, in effetti, come le prime interpretazioni della norma - stilate su influenza del Codice del 1930, laddove il nucleo familiare si reggeva sulla figura del padre di famiglia, titolare di non indifferenti potestà - finivano per "giustificare" la violenza educativa, di sovente sanzionata quale mero abuso dei mezzi di correzione.
Lo prevedeva, d'altro canto, perfino la citata relazione, per parola della quale la percossa - in quanto vis modica - veniva pacificamente considerata come lecita estrinsecazione dello jus corrigendi. È evidente che a oggi il sentire legislativo e sociale si radica su matrici completamente opposte, ferme nell'espungere qualsiasi forma di violenza nell'impiego del mezzo educativo in nome non soltanto dei precetti costituzionali (con riferimento agli artt. 2, 3, 29, 30, 31) e legislativi (art. 147 c.c.), ma altresì della mutata visione del minore inteso come individuo, titolare di precisi diritti e non assoggettabile a correzione, bensì soltanto a educazione.
Del resto, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del bambino del 1989 è stata chiara nel riconoscere al minore il diritto a un pieno e armonico sviluppo della personalità.
Così, l'uso di mezzi aggressivi, a prescindere dall'intento più o meno educativo, non potrebbe giammai risolversi in una condanna ai sensi dell'art. 571 c.p., integrando piuttosto la fattispecie dei maltrattamenti in famiglia, su cui ci soffermeremo più avanti, o addirittura le lesioni personali. In effetti, se l'abuso equivale a un uso smodato del mezzo lecito, è ovvio che non potrà esserci abuso punibile ex art. 571 c.p. in costanza di un utilizzo di mezzo illecito.
E rileveranno penalmente non solo le condotte pregiudicanti l'integrità fisica del soggetto passivo, ma anche quelle atte a lederne la serenità mentale.
Effettuate tali preliminari precisazioni, occorrerà focalizzare l'attenzione sulla composizione della fattispecie incriminatrice, da leggersi sotto il profilo della condotta di reato e dell'elemento soggettivo che anima l'agire criminale del reo.

L'abuso dei mezzi di correzione: soggetti del reato
Andando ad analizzare la struttura del delitto di cui si discorre, diverse peculiarità balzano agli occhi: la natura di reato proprio, la condizione di punibilità individuata nel pericolo di insorgenza di una malattia del corpo o della mente, la genericità del dolo. Sotto il primo aspetto, va chiarito che trattasi di reato passibile di integrazione solamente da individui vincolati al soggetto passivo dell'abusata correzione da legami di «educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia» o di dipendenza nell'ambito dell'esercizio di una professione o di un'arte.
Ne diviene, allora, che papabili soggetti attivi del reato potranno essere genitori, datori di lavoro, insegnanti o medici, rei di aver abusato del potere educativo, di formazione professionale o di cura nei confronti di figli, alunni, apprendisti o degenti.
Quanto al rapporto di filiazione, deve dirsi che il delitto in esame si configura nei confronti del genitore finché egli mantenga la potestà sulla prole e non quando il figlio, ormai maggiorenne seppur convivente, non ne sia più soggetto (Cass. n. 4444/2011).
Riconducibili all'apparato, anche le condotte poste in essere da coniugi o conviventi che esercitino un tale genere di potere-dovere per particolari condizioni del congiunto. Invero, se in relazione ai soggetti legati da coniugio, nulla può eccepirsi circa la possibilità di riconoscere reati propri connessi alla condizione matrimoniale (si veda il caso della bigamia, ipotizzabile solo in capo a persona coniugata), si è discusso circa la configurabilità di reati propri ove correlati alla situazione di convivenza.
Così, è stato ritenuto opportuno, anziché sancire principi generali - non concepibili in un sistema come quello giuridico attuale che manca di un'effettiva parificazione del nucleo coniugale a quello di fatto - vagliare la singola fattispecie per ricavarne una risoluzione "su misura". Non v'è chi non veda, in effetti, come le maglie dell'apparato legislativo si arricchiscano, negli anni, di aperture nei confronti delle unioni non matrimoniali.
Si ricorderanno, a tal proposito, le norme del Codice di procedura penale che, in punto di astensione dalla testimonianza, assimilano il convivente al congiunto. Ancora, nella legislazione stesa a disciplina del delitto di violenza sessuale, si parla espressamente di "relazione di convivenza"; parimenti dovrà concludersi ai fini applicativi della misura dell'allontanamento dalla casa familiare o dell'aggravante inerente la commissione di un reato con abuso delle relazioni domestiche, casi entrambi pacificamente estensibili anche ai soggetti vincolati da legami di fatto.
Tuttavia, trattasi pur sempre di previsioni isolate che non introducono generali dettami. Infine, quanto al soggetto minorenne, che sia autore o vittima del reato, il fattore minore età (infraquattordicenne o meno) avrà il suo valore in punto di imputabilità (ove reo) o di particolare atteggiarsi del delitto (ove soggetto passivo).

Elemento oggettivo del reato
Descritti sommariamente i soggetti del reato, volgiamo l'attenzione all'elemento materiale della fattispecie di cui all'art. 571 c.p.
Come si è detto, trattasi di figura che sanziona il disvalore penale dell'abuso dei mezzi diretti all'educazione, alla cura o alla formazione di chi sia legato all'agente dalle particolari relazioni già descritte. Ebbene, quando il delitto è punibile? A che condizioni?
Il Legislatore scrive che tale abuso diviene penalmente rilevante «se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente».
Sul punto, necessitano maggiori specifiche. In primo luogo, è la lettera della norma a evidenziare la natura della fattispecie quale reato "di pericolo", come più volte ribadito dai giudici di legittimità (Cass. n. 2100/2009, laddove assume rilevanza un isolato "schiaffone" ove vibrato con modalità tali da arrecare il "pericolo" di malattia).
È inteso, comunque, che il pericolo debba restare tale e non concretizzarsi, posto che, in costanza di un effettivo verificarsi di lesioni o del decesso della vittima, si esulerebbe dall'alveo della norma esaminanda per ricadere nelle diverse fattispecie di cui agli artt. 582 e 583 c.p. Quanto alla malattia, la Cassazione, in distinte occasioni, ha chiarito due snodi fondamentali.
Il primo è che ai fini dell'integrazione del reato rileva anche il pregiudizio arrecabile al minore sotto il profilo della salute psichica. In secondo luogo, si pone in luce il fatto che la nozione di malattia nella mente è più ampia di quella relativa al reato di lesione personale, finendo per comprendere ogni conseguenza rilevante sulla salute psichica del soggetto passivo, dallo stato d'ansia all'insonnia, dalla depressione ai disturbi del carattere e del comportamento (Cass. n. 7969/2020).

Elemento psicologico
Si comprenderanno, allora, le diatribe sorte attorno all'individuazione dell'effettivo elemento di disvalore penale del reato.
Ci si è domandati, in sostanza, se elemento integrativo del delitto sia la condotta abusante in sé, ovvero l'ulteriore tassello costituito dal pericolo di pregiudizio fisico e/o mentale. La questione non è di poco conto ove si pensi che l'adesione all'una piuttosto che all'altra ricostruzione incide radicalmente sulla modulazione dell'elemento psicologico del delitto: basterà aver voluto l'abuso o occorrerà aver agito con la specifica intenzione di porre in pericolo l'incolumità psicofisica della vittima?
Mentre la giurisprudenza più risalente ravvisava la specificità del dolo nell'intento di "correggere" - consentendo così quei mezzi correttivi compatibili con la finalità educativa - è ormai pensiero comune che sia sufficiente un dolo generico, non essendo richiesto un fine particolare e ulteriore rispetto alla consapevole volontà di realizzare la condotta di abuso (sul punto, ancora: Cass. n. 18289/2010).

La casistica
Abbiamo in precedenza rilevato quando e in che termini sia rinvenibile una fattispecie idonea a confluire nel recinto sanzionatorio di cui all'art. 571 c.p. Basterà, dunque, a chiudere l'esame della tematica, un fugace cenno alla casistica giurisprudenziale di maggiore spessore.
Il pensiero va alla già citata pronuncia con cui il collegio di legittimità ha ritenuto dover etichettare, quale abuso di mezzi correttivi, la condotta del genitore che - seppur mosso da fini educativi - abbia fatto ricorso a mezzi eccessivamente severi e penalizzanti la sana crescita del minore. Invero, come ribadito dai giudici, il delitto in questione può restare integrato anche da un unico atto espressivo dell'abuso, oltre che dalla reiterazione dei gesti punitivi (Cass. n. 2100/2009).
A conferma di tale impostazione, si annoti un'altra sentenza della Suprema Corte, intervenuta a sottolineare un dato importante circa la natura del delitto di cui all'art. 571 c.p. Si tratta, si precisa nella parte motiva della sentenza, di un reato che non ha natura necessariamente abituale; è per questo motivo che può pacificamente reputarsi integrato da un unico atto violento o comunque abusante, così come da una serie di comportamenti lesivi della serenità psicofisica del minore che, mantenuti per un lasso di tempo apprezzabile, realizzano l'evento, ovvero il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente della vittima.
I fatti su cui si era pronunciata la Cassazione coinvolgevano un'insegnante originariamente accusata di percosse a danno degli alunni. La mancanza di querela, però, aveva indotto i giudici di merito a emettere sentenza assolutoria.
Sennonché, su ricorso del pubblico ministero, la Cassazione ha ribaltato le sorti del processo annullando con rinvio la sentenza contestata, sollecitando una migliore valutazione dell'accaduto. Nella stesura delle motivazioni, però, il collegio di legittimità ha tenuto a precisare che il reato di cui all'art. 571 c.p. sussiste anche a prescindere dall'intenzione correttiva del soggetto agente e dunque anche nel caso concreto, posto che la donna era giunta al punto di minacciare e percuotere gli alunni, sottoponendoli a umiliazioni per il loro basso rendimento scolastico (Cass. n. 18289/2010).
A ben vedere, la pronuncia de qua accende l'interesse su un'altra questione - in parte esulante dal tema esteso - e attinente al vaglio probatorio delle dichiarazioni testimoniali rese de relato dai genitori, nelle fattispecie di vittime di abuso di tenera età. Sul punto, ferma la necessità di una più severa valutazione circa l'attendibilità dei racconti "trasferiti" dal bimbo al genitore e da questi al giudice, la giurisprudenza non ha escluso che anche i bimbi più piccoli potessero essere in grado di ricordare, loro malgrado, tal genere di esperienze. Ancora sull'elemento oggettivo del reato, si badi come lo jus corrigendi trasmoderà in abuso penalmente rilevante nel caso in cui il genitore abbia usato nei confronti della prole punizioni tanto afflittive da arrecare pericolo di insorgenza di una malattia psichica (Cass. n. 42648/2007).
Nel caso di specie, un padre aveva costretto la figlia a scrivere fino all'esasperazione frasi umilianti su un quaderno. I giudici di legittimità, più che per il tenore delle parole dettate, avevano ritenuto sussistere la condotta abusante per l'arrecato pericolo - non solo teorico, bensì concreto giusta la sintomatologia riferita - dell'insorgere nella minore di una depressione reattiva.
Di estremo rilievo, in materia di accertamento del pericolo di patologie fisiche o mentali a danno della vittima, è una sentenza di legittimità con la quale la Corte ha affermato che tale pericolo non deve essere accertato necessariamente attraverso una perizia medico-legale, potendolo desumere anche dalla natura dell'abuso, secondo le regole della comune esperienza. Così, a prescindere da specifiche indagini tecniche, esso potrà dirsi sussistente ove l'agire del reo presenti caratteristiche tali da poter arrecare un simile pregiudizio (Cass. n. 49433/2009).
Per concludere la veloce disamina, potrà dunque affermarsi che ai fini integrativi del reato di cui all'art. 571 c.p., occorrerà: a) la sussistenza di un legame particolare tra l'agente e la vittima dell'abuso (filiazione, dipendenza lavorativa, custodia...); b) la consapevolezza di porre in essere una condotta di abuso (dolo generico); c) la liceità del mezzo adoperato, seppur abusato; d) l'aver causato il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente.
La linea di confine rispetto al delitto di "maltrattamenti contro familiari e conviventi"
Il criterio distintivo tra la fattispecie di abuso dei mezzi di correzione e quella di maltrattamenti familiari ha da sempre preoccupato gli operatori di diritto, posto che il superamento del confine penalistico segnato tra i due delitti è fonte di ben diverse conseguenze a carico del reo. Tuttavia, si riterrà sufficiente prestare attenzione al dato letterale della norma per evidenziarne le difformità.
A seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 172/2012 - di ratifica della Convenzione di Lanzarote per la tutela dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale - il testo della norma include tra i soggetti passivi anche la persona "comunque convivente". Tale fattispecie è ora configurabile anche solo in presenza di un rapporto di convivenza di breve durata, instabile e anomalo, purché sia sorta una prospettiva di stabilità e un'attesa di reciproca solidarietà. Anzi, esso è configurabile anche nei confronti di persona non più convivente con l'agente quando questi conserva con la vittima una stabilità di rapporti dipendente dai doveri connessi alla filiazione per la perdurante necessità di adempiere gli obblighi di cooperazione nel mantenimento, nell'educazione, nell'istruzione e nell'assistenza morale del figlio - anche naturale - derivante dall'esercizio congiunto della potestà genitoriale. Si chiude, così, la querelle sull'esatta nozione di persone di famiglia cui la norma faceva riferimento ante riforma. Non solo. A seguito di tali modifiche, il novero delle ipotesi aggravate è stato ampliato ed esteso al fatto commesso in danno di minore di anni quattordici. Su tale previsione, poi, ha inciso sia il D.L. n. 93/2013, che la sua legge di conversione n. 119/2013. La finalità dell'intervento (a contrasto dei fenomeni della violenza di genere) ha dato l'imput per estendere l'aggravante ai crimini commessi in danno di tutti i minorenni - non solo se infraquattordicenni - e ai fatti lesivi commessi in presenza di minore (anche ove la condotta sia posta in essere contro un altro soggetto passivo). In tal modo, si è dato rilievo, aggravandone la sanzione, alle ipotesi di "violenza assistita". Riscritto, di conseguenza, anche il trattamento sanzionatorio previsto per l'art. 572 c.p., che eleva le pene indicate dalla norma precedente.
Ferma l'evidenza della clausola di riserva inserita nell'incipit della norma, in favore della più benevola fattispecie dell'abuso di mezzi correttivi, può affermarsi che il disposto in parola - così come quello che lo precede - si radica sulle medesime esigenze di tutela sulle quali ci siamo soffermati in precedenti sessioni.
Di qui, l'ormai respinta convinzione della giurisprudenza meno recente che soleva individuare, quale criterio distintivo tra le figure, il fattore soggettivo. Secondo tale prima impostazione, l'abuso di cui all'art. 571 c.p. era caratterizzato da un dolo specifico ovvero dall'intento del reo di "correggere" il familiare, il figlio o il dipendente.
Non è così, e sulle motivazioni per le quali trattasi di ricostruzione censurabile si è già detto. Si riterrà sufficiente ribadire, allora, che effettivo elemento distintivo dovrà ritenersi più correttamente, l'abitualità della condotta e la natura del mezzo utilizzato che solo nell'alveo dell'art. 571 c.p. sarà lecito seppur abusato. In tale fattispecie, invero, l'abuso dei mezzi di correzione o di disciplina consiste nell'uso "non appropriato" di metodi, strumenti e, comunque, comportamenti correttivi o educativi, in via ordinaria consentiti dalla disciplina generale e di settore, nonché dalla scienza pedagogica, quali, esemplificando, l'esclusione temporanea dalle attività ludiche o didattiche, l'obbligo di condotte riparatorie, forme di rimprovero non riservate.
Quanto alla nozione di abuso in grado di provocare un pericolo di malattia, essa andrà letta in sintonia con il concetto di abuso sul minore, riferendosi ai dettami della letteratura scientifico psicologica per la quale tale pericolo sussiste ogniqualvolta ricorra il concreto rischio di rilevanti conseguenze sulla salute psichica del soggetto passivo, come nel caso di ricorso a metodi educativi autoritari, violenti o costrittivi, da ritenersi non solo pericolosi, ma anche dannosi per la salute psichica (Cass. n. 34674/2007).
Tirando le fila del discorso, conterà il dato oggettivo del delitto, con riferimento al mezzo utilizzato dal soggetto agente: lecito (seppur abusato) nel caso dell'art. 571 c.p.; illecito, nel caso dell'art. 572 c.p.
Sarà, dunque, la sistematica ripetizione del ricorso a mezzi violenti a far scattare la condanna per maltrattamenti. In sintesi, l'abuso dei mezzi di correzione sanziona l'uso consentito divenuto "abuso" in quanto eccessivo o arbitrario; la fattispecie che incrimina i maltrattamenti disciplina la più grave ipotesi in cui la vittima sia restata assoggettata a una serie di condotte violente e prevaricatrici.
E tale postulato, lo si deve precisare, varrà a prescindere dalla sussistenza di un preteso animus corrigendi.
Anche la giurisprudenza di merito è chiara sul punto: ai fini distintivi tra il delitto di maltrattamenti e quello di abuso dei mezzi di correzione non rileva l'intenzione del reo, ma solamente la natura oggettiva della condotta, non essendo configurabile il primo reato quando i mezzi adoperati siano obiettivamente incompatibili con l'attività educativa (Corte d'Appello di Trieste n. 750/2010).
Sicché, il parametro valutativo della condotta criminosa non potrà mai individuarsi nell'intento che anima il soggetto agente - che ben potrebbe essere davvero convinto, per cultura di provenienza, della finalità educativa della violenza usata - bensì alla stregua dell'ordinamento giuridico vigente e del sentire sociale.
A titolo esemplificativo dell'assunto, si vuole portare il caso di un padre il cui ricorso avverso la condanna per maltrattamenti nei confronti del figlio minore è stato bocciato dalla Cassazione, posto che le consuetudini proprie dell'uomo - marocchino - non potevano valere a giustificarne la condotta.
In effetti, mettono in luce i giudici di legittimità, un comportamento connotato da violenza fisica e psicologica a danno di un bambino non potrà mai ritenersi mosso da un intento educativo tanto da beneficiare del più morbido trattamento sanzionatorio di cui all'art. 571 c.p., a nulla rilevando le matrici socio-culturali del paese di provenienza dell'imputato (Cass. n. 48272/2009). Ancora in tema di maltrattamenti familiari, così come viene sancita dai giudici l'irrilevanza del fattore culturale ai fini integrativi del reato, parimenti dovrà concludersi in relazione al credo religioso, non potendosi ritenere che l'adesione a una particolare religione - che non riconosca la parità tra i coniugi in favore dell'uomo - possa giustificare i maltrattamenti recati alla moglie (Cass. n. 32824/2009). Superfluo precisare come la sottomissione a pratiche esoteriche "sataniche" integri senza meno il reato di maltrattamenti (Cass. n. 8294/2009).
Chiarito il confine tra il delitto di abuso di mezzi di correzione e quello di maltrattamenti in famiglia, possiamo soffermarci sul secondo e più grave reato, analizzandone la struttura e i parametri di sussistenza.
Maltrattamenti contro familiari e conviventi: la condotta criminale e l'intenzione del reo
La fattispecie modulata ai sensi dell'art. 572 c.p. esordisce con «chiunque...». L'espressione, prima facie fuorviante, suole comunque riferirsi a soggetti appartenenti al medesimo contesto familiare, laddove per "famiglia" non va inteso solo un consorzio di persone avvinte da legami di parentela naturale e civile, ma anche di un'unione di soggetti legati, per intime relazioni e consuetudini di vita, da rapporti di reciproca assistenza, protezione e solidarietà (Cass. n. 24668/2010), a prescindere da un rapporto di stabile convivenza.
Quanto alle relazioni matrimoniali, si è detto di recente che integra il reato la condotta del coniuge che ripetutamente offenda la moglie, ormai calata in una condizione di vita mortificante, attesa l'esistenza di un programma criminoso diretto a lederne l'integrità morale (Cass. n. 45547/2010).
Parimenti, risponderà ex art. 572 c.p. il consorte che minacci la moglie per costringerla a non chiedere la separazione, ove la condotta venga contestualizzata nel regime di vita vessatorio subito dalla donna (Cass. n. 37796/2010).
Tuttavia, i maltrattamenti sono configurabili anche in caso di cessata convivenza a seguito di separazione legale o di fatto, trattandosi di condizione che - liberando i coniugi dagli obblighi di coabitazione e di fedeltà - lascia intatti i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale e di solidarietà peculiari del vincolo coniugale o del rapporto di filiazione (Tribunale di Bari n. 553/2010).
Abbandonata l'idea di una rigida catalogazione dei "familiari" intesa in chiave strettamente giuridica (coniugi, parenti, affini...), viene da sé l'inclusione nell'alveo dei soggetti attivi o passivi del delitto, dei conviventi more uxorio alla luce di quella affectio familiaris che caratterizza anche le unioni di fatto.
Possono essere, inoltre, soggetti del reato de quo anche i medesimi soggetti di cui all'art. 571 c.p.: ovvero coloro sottoposti all'autorità altrui o a lui affidati per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte.
Per ciò che concerne, invece, la condotta di reato, la norma richiama il termine "maltrattare".
Ebbene, trattandosi di reato a forma libera, è evidente che il delitto di cui all'art. 572 c.p. potrà realizzarsi nelle modalità più svariate, potendo consistere in vessazioni fisiche o psicologiche, in azioni od omissioni che, isolatamente considerate, potrebbero non assurgere a delitto, ma che reiterate nel tempo potrebbero assumere disvalore penale.
Ad esempio, il costante disinteresse manifestato nei confronti del figlio potrebbe generare o aggravare il disagio psicologico, dando luogo a condotta di reato. Del resto, non è necessario che lo stato di umiliazione della vittima si colleghi a specifiche azioni vessatorie, potendo derivare anche da un clima generalmente instaurato all'interno di una comunità, connotato da atti di sopraffazione indistintamente commessi a danno dei sottoposti (Cass. n. 41142/2010). V'è da ritenere, allora, che alla condotta di reato possano ricondursi percosse, minacce, ingiurie, ma altresì atti di scherno o disprezzo idonei a provocare sofferenza fisica o morale, e temporalmente coincidenti (Cass. n. 22790/2010).
Ciò che conta, in sostanza, è l'abitualità del delitto come si esplicita dal termine plurale di "maltrattamenti", tanto da doversi annullare la condanna inferta per maltrattamenti ove non consti la prova dell'abitualità di una condizione vessatoria (Cass. n. 20494/2010).
Tutto ciò considerato, resta da vagliare il fattore soggettivo: il dolo del reato di cui all'art. 572 c.p.
Non v'è dubbio che trattasi di dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima a una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni che ne avviliscono la personalità (Cass. n. 8598/2010).
Ne deriva l'irrilevanza del movente che spinga il criminale a perpetrare il maltrattamento, ben potendo agire per vendetta, per prepotenza ovvero per estrema gelosia del partner che sospetti l'infedeltà dell'altro; detta condotta - notano i giudici - non resta attenuata dall'eventuale approvazione da parte della vittima della violenta relazione (Cass. 12621/2010). Si consentirà un ultimo appunto circa l'eventualità che dai maltrattamenti derivi la lesione o la morte della vittima, fonte di applicazione dell'aggravante di cui al comma secondo. La circostanza, ad esempio, potrà inasprire la pena di chi, incaricato di assistere un anziano, lo abbandoni per un lungo periodo, aggravandone le già precarie condizioni di salute. Un'interessante pronuncia di legittimità (Cass. n. 29631/2010) ha anche messo in luce come l'espressione «derivare» comporti una lettura della norma correlata ai precetti di cui all'art. 41 c.p., circa l'imputazione oggettiva degli eventi cagionati dall'autore di un reato, di cui andrà vagliato l'effettivo apporto causale nel verificarsi dell'evento.
Nel quotidiano delle aule giudiziarie, però, le questioni non sempre trovano agevole risoluzione, specie ove il reato in parola finisca per intersecarsi con fattispecie criminose "di confine", come si accennerà nell'immediato proseguo.

Cenni sui rapporti con altri reati
Della correlazione tra l'abuso dei mezzi di correzione e i maltrattamenti familiari si è già trattato.
Si vorrà, allora, leggere il delitto di maltrattamenti in famiglia alla luce dei rapporti correnti con altre fattispecie criminose, per taluni versi similari.
Si noterà, che se talvolta il delitto di cui all'art. 572 c.p. assorbirà in sé altre condotte penalmente rilevanti, talaltra esso vi andrà a concorrere. Sotto il primo profilo, è indubbio che il maltrattamento assorbirà le ingiurie, le minacce e la violenza privata rientranti nella sua materialità (Cass. n. 22790/2010). Si giunge a tale conclusione, non solo per la più severa punizione prevista per il delitto in discorso, ma altresì perché trattasi di delitti posti a tutela di beni diversi (Cass. n. 22796/2010).
Per la stessa ragione, osservata dall'opposto punto di vista, i maltrattamenti potranno concorrere con il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, giusta la divergenza dei beni oggetto di tutela giuridica: la dignità della persona quanto alla figura normata dall'art. 572 c.p.; il rispetto dell'obbligo legale di assistenza nell'altro caso (Cass. n. 4390/2009).
Parimenti, spostandosi su diverso piano, potranno inquadrarsi alla stregua dei maltrattamenti le condotte persecutorie poste in essere dal datore di lavoro e tese all'emarginazione del dipendente, ove il rapporto tra essi corrente sia connotato da relazioni abituali e soggezione del soggetto debole che riponga fiducia in quello gerarchicamente superiore (Cass. n. 26594/2009). In effetti, presupposto essenziale, assente una specifica figura incriminatrice del cd. mobbing, sarà un rapporto di tipo para-familiare (Cass. n. 685/2010).

Considerazioni conclusive
Sulla base delle osservazioni svolte, e alla luce dei criteri e delle linea guida forniteci dalla giurisprudenza, si può conclusivamente affermare che i confini tra il reato di abuso di mezzi di correzione e quello di maltrattamenti in famiglia, sono venuti poco a poco a delinearsi.
Così, dissipate le linee d'ombra talora ravvisabili in relazione a talune fattispecie concrete, si marcano con maggiore agilità le divergenze stanti tra i due delitti in esame: il reato di cui all'art. 571 c.p. si caratterizza dall'abuso di un mezzo in sé lecito; la figura disciplinata ai sensi del seguente art. 572 c.p. si connota per l'utilizzo di mezzi in sé illeciti, oltre che per l'abitualità della condotta criminale, come si evince dall'espressione plurale di "maltrattamenti" che titola la norma.

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