Civile

La crisi del Codice della Crisi

Uno dei (pochi) effetti collaterali positivi della pandemia sembra essere il perdurante rinvio dell'entrata in vigore del Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza ("CCI"), frutto dell'infelice parto del 2019.

di Oscar Podda*

Uno dei (pochi) effetti collaterali positivi della pandemia sembra essere il perdurante rinvio dell'entrata in vigore del Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza ("CCI"), frutto dell'infelice parto del 2019.

La prima proroga fu decisa in piena fase Covid l'anno passato; lo scorso 24 agosto, poi, è stato provvidenzialmente emanato il D.L. n. 118/2021 che sposta tutto al 16 maggio prossimo e addirittura a fine 2022 il meccanismo degli Organismi di composizione della crisi d'impresa ("OCRI"). Vista la matrice dirigista del CCI, le sue incoerenze epistemologiche e la prevedibile inutilità degli OCRI – solo considerandone la composizione, i meccanismi e i costi – l'intervento legislativo è positivo e lascia sperare in una definitiva rottamazione del CCI stesso.

Ma il D.L. n. 118 non si limita ad un rinvio: esso, con un movimento pendolare in direzione opposta all'ideologia del CCI, introduce due nuovi istituti che, pur con alcune incoerenze ed alcuni limiti tipici della legislazione italiana recente, potrebbero rivelarsi utili per la gestione delle crisi aziendali.

Il primo è la "composizione negoziata per la soluzione della crisi d'impresa", procedimento ibrido tra struttura esclusivamente privatistica – parente del c.d. art. 67, per intenderci – ed eventuale intervento del Tribunale per produrre effetti in qualche modo paragonabili a quelli del noto concordato "in bianco". Il tutto sotto la guida di un "esperto" scelto da una commissione. Se questo istituto darà buona prova lo si vedrà sul campo. Si tratta di un'opportunità e non di un obbligo. Di positivo, semmai, è che l'"esperto" viene scelto in una platea di soggetti ben più ampia di quelli che costituirebbero gli OCRI (limitati invece a professionisti che abitualmente svolgono attività di curatore, commissario o liquidatore giudiziale): lo scotto in termini di competenza specifica potrebbe essere abbondantemente compensato da un'effettiva – e rinfrescante – indipendenza "culturale".

Il secondo è il "concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio", vera inversione di rotta rispetto al CCI che privilegiava il fallimento come strumento liquidatorio, ribattezzandolo altrimenti per mere ragioni cosmetiche. Anche questo istituto andrà valutato sul campo, ma desta alcune perplessità strutturali: se per un verso ha connotati più flessibili dell'attuale concordato ed è difficile pensare che possa essere molto peggio della "liquidazione giudiziale" del CCI, per l'altro appare discutibile l'esproprio del diritto di voto in capo ai creditori. Ebbene, rinviare tutto ai pareri dell'"esperto", del Tribunale e del suo "ausiliario" quando i crediti appartengono ai creditori pare una strada piuttosto paternalistica – da punto di vista dell'analisi economica: al cittadino è consentito di votare per scegliere il Parlamento, ma se si tratta di un suo credito è meglio che decida un magistrato o un suo "ausiliario"...

Altre disposizioni di contorno del D.L. n. 118 riguardano gli accordi di ristrutturazione del debito, le "convenzioni di moratoria" e il concordato in continuità: interventi di dettaglio che potrebbero rivelarsi nel complesso utili. È mancato invece, come in passato, il coraggio di metter mano al pesante apparato penale della legge fallimentare del 1942, rimasto legato – anche nella sua applicazione quotidiana – ad una visione essenzialmente repressiva dell'insolvenza.

*a cura dell'avv. Oscar Podda, socio Nunziante Magrone

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©