Casi pratici

Prove presuntive: la valutazione giudiziale

Presunzioni. Inquadramento e nozione

di Laura Biarella

la QUESTIONE
Quali sono le caratteristiche delle prove presuntive e quale valore assumono i fatti provati attraverso le medesime?

Le prove
Le prove sono gli strumenti processuali per mezzo dei quali il giudice forma il suo convincimento in ordine alla verità o meno dei fatti affermati dall'una o dall'altra parte.
Più precisamente, la prova è quello strumento idoneo a convincere il giudice della verità di quanto affermato dalle parti nel processo.
Il termine prova viene utilizzato per indicare tre diversi fenomeni.
Secondo una prima accezione, prova indica tutto ciò che è utile per confermare l'esistenza di un fatto. Stesso significato presentano, altresì, le espressioni "mezzo di prova"; "fonte di prova"; "elemento di prova". In un secondo significato, "prova" indica il risultato che si raggiunge una volta che la prova sia stata assunta e il giudice ne abbia valutato gli esiti in sede di decisione.
In una terza accezione, l'espressione "prova" indica l'insieme delle varie attività che vengono poste in essere nel corso del processo per arrivare all'acquisizione delle prove. In tal senso, prova equivale a "procedimento".
Come precedentemente accennato, nel nostro ordinamento, la disciplina delle prove risulta suddivisa tra il Codice civile e il Codice di procedura civile.
Più precisamente, il primo stabilisce l'onere della prova e disciplina i singoli mezzi di prova, mentre il secondo concerne gli aspetti procedurali della prova.
In materia di prova è possibile enucleare la presenza di tre principi generali:
1) il principio della disponibilità della prova (art. 115 c.p.c. in virtù del quale le parti hanno il monopolio nell'acquisizione al giudizio del materiale istruttorio necessario per la decisione della causa);
2) il principio di valutazione della prova secondo il prudente apprezzamento del giudice (art. 116 c.p.c.);
3) il principio dell'onere della prova (art. 2697 c.c.)
Il c.d. principio dell'onere della prova prevede, in particolare, che chi vuole far valere un suo diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
Tale onere, peraltro, riguarda anche la parte convenuta in giudizio, laddove la stessa eccepisca l'irrilevanza di tali fatti, o eccepisca che il diritto vantato dall'attore si è modificato o estinto.
Il principio dell'onere della prova è alla base del processo civile, a differenza di quello penale, laddove le prove della eventuale colpevolezza devono essere addotte dal pubblico ministero, presumendosi l'imputato innocente fino a quando lo stesso non venga condannato con una sentenza passata in giudicato (vedi art. 27, comma 2, Cost.).
Ne discende che nel processo civile vige il principio dispositivo in forza del quale il giudice decide unicamente in base alle prove raccolte in giudizio dalle parti. Tuttavia, nel caso in cui la controversia concerna diritti indisponibili, il principio dispositivo convive con il principio inquisitorio (tipico del processo penale) in forza del quale le prove sono acquisite al processo anche a iniziativa del giudice, o del pubblico ministero, trattandosi di vicende considerate di interesse pubblico e, pertanto, sottratte anche processualmente sul piano probatorio alla libera iniziativa dispositiva delle parti in causa.

Classificazione delle prove
La prova, generalmente riguarda fatti positivi, ma tramite essi possono anche provarsi, in via presuntiva, fatti negativi. Vari sono i criteri elaborati per raggruppare le varie prove.
Più precisamente, si distingue tra prove precostituite e prove semplici, intendendosi con le prime, quelle prove che, a differenza delle seconde, preesistono al processo, o tra prove storiche (prove aventi a oggetto le stesse prove da accertare, quali ad esempio l'atto scritto di compravendita) e prove critiche (consentono al giudice di argomentare da fatti noti, per ritenere provata l'esistenza di fatti, in realtà non strettamente provati e che vengono dette critiche, poiché richiedono un ragionamento critico da parte del giudice).

Il ragionamento presuntivo
Tramite le fonti di prova (dirette o indirette), il giudice giunge alla conoscenza di un fatto che può essere principale, cioè di immediata rilevanza probatoria in quanto costituente fatto da provare (incluso nel thema probandum), o secondario. In questo secondo caso, quando cioè attraverso una fonte materiale di prova (sia essa ispezione, documento o dichiarazione di scienza) la parte non provi direttamente un fatto costitutivo, modificativo, estintivo o impeditivo della fattispecie dedotta in giudizio, bensì un fatto rispetto a esso diverso ma dal quale è possibile attraverso un'operazione logica di deduzione (o un'ulteriore operazione logica di deduzione, nel caso di prova rappresentativa) inferire la sussistenza di uno di tali fatti sopra menzionati, in questo caso si ha la c.d. prova per presunzioni o prova critica. È, piuttosto, prova nel senso di attività, operazione, logico-deduttiva attraverso cui si perviene dalla conoscenza del fatto secondario alla conoscenza del fatto principale da provare. Ora, tale attività avviene attraverso un elemento di connessione tra fatto noto e fatto ignorato costituito da criteri di comune conoscenza cioè da massime di comune esperienza che possono appartenere a tutti i campi del sapere. Evidentemente, la forza del ragionamento presuntivo e il conseguente valore probatorio appaiono pertanto direttamente collegati al grado di connessione esistente tra il fatto noto e la conseguente conoscenza del fatto ignorato, grado di connessione che può attribuire al fatto derivato carattere di certezza o di probabilità ma mai scendere al di sotto di tale soglia.

Caratteristiche principali
Alle presunzioni semplici è dedicato, in particolare, l'art. 2729 c.c. secondo il quale «le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti. Le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni». La norma esprime da un lato il principio della libera valutazione da parte del giudice del ragionamento presuntivo e dall'altro lato prevede due limitazioni all'ammissibilità delle presunzioni, l'una intrinseca, attinente cioè al carattere delle presunzioni, l'altra estrinseca, inerente cioè a scelte di politica legislativa effettuate a monte. La prima limitazione consiste nel conferire ammissibilità alle sole presunzioni che rivestano i caratteri della gravità, della precisione e della concordanza.
Invero, la presunzione è grave quando il giudizio di inferenza comporta in esito, almeno, la probabilità circa l'esistenza del fatto ignorato da provare: il requisito nella sostanza è collegato alla tipologia della massima di esperienza applicata e vale, dunque, quanto già detto sopra.
La presunzione, ancora, deve essere precisa: vale a dire la conclusione circa la probabile esistenza del fatto ignorato deve essere univoca e non contraddittoria o riferibile anche ad altri fatti. La presunzione, infine, deve essere concordante: a una interpretazione più restrittiva (dottrinale) che comporta l'utilizzabilità delle presunzioni, al fine di provare un fatto rilevante, solo se sono tra loro concordanti e, dunque, se sono plurime, si contrappone un'altra interpretazione (giurisprudenziale) che consente l'utilizzo di prove presuntive anche nel caso in cui la presunzione sia unica. La seconda limitazione consiste invece nel considerare ammissibili le presunzioni soltanto nei casi in cui sia ammissibile la prova testimoniale. Non essendovi alcuna connessione tra la problematica delle presunzioni e i limiti di ammissibilità della testimonianza, la ratio della limitazione - come è stato detto - è da ravvisarsi piuttosto nella volontà del Legislatore di rafforzare il privilegio riservato alla prova scritta in determinate ipotesi nelle quali si esclude la prova testimoniale.
Nella normalità dei casi saranno le parti a introdurre nel processo quei fatti secondari che sono alla base del ragionamento presuntivo proprio al fine di rafforzare probatoriamente i fatti principali che costituiscono il thema probandum. In siffatte ipotesi il giudice è evidentemente stimolato a pronunciarsi sulla rilevanza presuntiva dei fatti.
Può accadere, tuttavia, che le parti non invochino una presunzione e che non alleghino fatti a sostegno della stessa; che, tuttavia, elementi altrimenti noti al giudice (ad esempio, una documentazione acquisita ex art. 213 c.p.c.) rilevino la probabilità della sussistenza di fatti principali rilevanti. Ora, poiché la presunzione consiste in una correlazione logica che pone fatti noti come manifestazione implicita di fatti ignoti, essa può essere applicata d'ufficio dal giudice, sussistendo certamente il potere-dovere di quest'ultimo di ricostruire la vicenda controversa e di valutare probatoriamente tutte le circostanze emerse: ne consegue che la mancata rilevazione d'ufficio di una presunzione è da ritenersi pari a una pronuncia negativa sulla sussistenza dei presupposti della presunzione stessa.
La prova critica o indiziaria più importante è quella basata su presunzioni (c.d. prove presuntive) che l'art. 2727 c.c. definisce come le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignoto. Le presunzioni si dividono in tre categorie: presunzioni legali assolute (o iuris et de iure), presunzioni legali semplici (o iuris tantum); presunzioni non stabilite dalla legge (o iudicis o hominis). È l'art. 2728 c.c. a delineare la disciplina delle presunzioni legali affermando al primo comma che esse «dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali... sono stabilite» e aggiungendo al secondo comma che «contro le presunzioni sul fondamento delle quali la legge dichiara nulli certi atti o non ammette l'azione in giudizio non può essere data prova contraria salvo che questa sia consentita dalla legge stessa». Ne consegue che, a loro volta, le presunzioni legali sembrano suddividersi in due specie: le presunzioni assolute per le quali non è ammessa prova contraria e le presunzioni relative per le quali, al contrario, è ammessa la prova contraria.

Presunzioni legali
Tali presunzioni sono disciplinate dall'art. 2728, comma 2, c.c. in forza del quale: «Contro le presunzioni sul fondamento delle quali la legge dichiara nulli certi atti o non ammette l'azione in giudizio non può essere data prova contraria, salvo che questa sia consentita dalla legge stessa». Contro tali prove, pertanto, non è ammessa prova contraria, salvo che questa sia consentita dalla legge.
Siffatte presunzioni, dette, altresì, presunzioni iuris et de iure, più che sul piano probatorio sembrano operare sul piano sostanziale, nel senso che sembrano fissare una equipollenza tra fatto produttivo di un dato effetto e e altro fatto dalla legge equiparato. Tra i pochi esempi di presunzioni legali assolute riscontrabili nel nostro ordinamento si può annoverare quella prevista dall'art. 599, comma 2, c.c. in virtù della quale, in materia di capacità a ricevere per testamento, le disposizioni testamentarie a vantaggio di certe persone incapaci sono nulle, anche se effettuate sotto nome di interposta persona. Ad esempio, il notaio che riceve un testamento non può essere beneficiario dello stesso, nemmeno per interposta persona. A tale proposito, sono considerate persone interposte, senza possibilità di prova contraria, il padre, la madre, i discendenti e il coniuge del notaio.
Le presunzioni semplici sono definite dall'art. 2727 c.c. come le conseguenze che il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignoto. Questo è l'elemento caratterizzante la prova critica. Oggetto di prova, in tal caso, è un fatto non rilevante in sé e per sé (poiché non costituisce un elemento della fattispecie), che attraverso un ragionamento presuntivo consente di affermare l'esistenza o l'inesistenza di un fatto rilevante (in quanto elemento della fattispecie). La prova presuntiva o indiziaria, contrariamente a quanto di solito si è portati a ritenere, non necessariamente presenta una efficacia probatoria inferiore alle altre prove. L'efficacia della prova per presunzioni consiste nella forza della inferenza che lega il fatto noto a quello ignoto (l'alibi, ad esempio, è una prova indiziaria forte poiché la regola della non ubiquità non è soggetta a smentite).
Anche per quanto concerne le presunzioni relative, dette anche iuris tantum, va osservato che pur non presentando questo aspetto di equiparazione funzionale, esse non sembrano inquadrarsi perfettamente nel fenomeno probatorio, poiché è, in ogni caso, il fatto dell'equipollenza, piuttosto che l'evento da provare a essere oggetto di prova contraria, come nel caso previsto dall'art. 684 c.c. ove l'equipollenza è individuabile tra revoca e distruzione della scheda testamentaria, con possibile prova contraria.
Le presunzioni relative si distinguono dalle presunzioni assolute per il fatto che il ragionamento deduttivo qui non costituisce ratio inespressa della norma, bensì contenuto stesso di essa. Sono infatti individuabili, in riferimento a quanto indicato nei due commi dell'art. 2728 c.c., da un lato - in favore dell'una parte - dalla c.d. relevatio ab onere probandi di cui al primo comma e dall'altro lato - in favore dell'altra parte - dalla correlativa possibilità di offrire la prova contraria alla presunzione, come si evince a contrario dal secondo comma. Effetto immediato delle presunzioni legali relative è l'inversione dell'onere della prova: la parte in favore della quale opera la presunzione è dispensata dal provare i fatti principali a sostegno del fatto presunto, mentre l'altra parte è onerata dell'onere di provare la sussistenza del fatto contrario. Si pensi all'art. 1709 c.c. in materia di onerosità del mandato, all'art. 1147 c.c. in materia di buona fede del possessore.
Al di là del fatto se esse possano configurarsi come norme di diritto processuale, o se invece incidano sulla fattispecie sostanziale, è fuori di dubbio che tali presunzioni operano a livello processuale redistribuendo l'onere della prova di cui all'art. 2697c.c.: in tale redistribuzione è da ravvisarsi la ratio della norma.
L'art. 2729 c.c. stabilisce che le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti. Nelle presunzioni de quibus, pertanto, l'inferenza tra il fatto noto e quello ignoto è prevista dal giudice sulla base di una regola che non è legale in quanto non è prevista dalla legge. Le presunzioni semplici devono essere gravi, precise e concordanti. Esistono, tuttavia, dei limiti alla utilizzazione delle presunzioni semplici: esse, infatti, non possono essere usate nei casi in cui è esclusa la prova per testimoni.

Considerazioni conclusive
Alla luce di quanto delineato, è dato evincere con assoluta certezza il valore assunto dalle prove presuntive all'interno del nostro ordinamento giuridico.
Tali prove, infatti, contrariamente a quanto si è portati a credere, non presentano un valore probatorio inferiore rispetto alle altre tipologie di prove presenti nel nostro sistema processuale. L'efficacia della prova per presunzioni consiste, infatti, nella forza dell'inferenza che lega il fatto noto a quello ignoto.