Penale

La limitazione applicativa della specifica esimente della provocazione nei delitti di diffamazione aggravata

Nota a Corte di Cassazione, Sez. V Penale, Sentenza 24 giugno 2022, n. 24614

di Pierluigi Zarra*

• La vicenda giudiziaria

Al fine di fornire una corretta disamina della vicenda oggetto d'analisi, occorre ripercorrere i punti salienti del contenzioso.

Il Tribunale di Catania aveva condannato - a seguito di rito abbreviato - il ricorrente alla pena di legge per il reato di diffamazione aggravata, ex art. 595, co 1., c.p., al pagamento di euro 6.000 di multa, delle spese processuali e della rifusione di quelle spese sostenute dalla parte civile.

L'ipotesi delittuosa contestata all'imputato è consistita nell'aver arrecato offesa all'onore e alla reputazione dell'ex moglie, attraverso la pubblicazione, sulla piattaforma social "Facebook", di una serie di frasi diffamatorie.

La condanna, emessa in prime cure, veniva confermata dalla Corte di Appello di Catania che aveva disposto l'aumento delle spese processuali e della rifusione di quelle sostenute dalla parte civile - ammessa al patrocinio a spese dello Stato – prevedendo, inoltre, la revoca della sospensione condizionale della pena, ai sensi dell'art. 168 c.p.

L'imputato, in considerazione della decisione sanzionatoria patita, promuoveva ricorso avverso la stessa lamentando tre motivi.

Quanto al primo, deduceva violazione di legge ed omessa motivazione, soprattutto in riferimento all'addebito contestato per i fatti commessi a titolo di diffamazione, di cui agli artt. 595, co 1. e 599, co. 2, c.p., in quanto la decisione maturata nei primi due gradi di giudizio ometteva il riconoscimento dell'esimente putativa della reazione d'ira provocata dall'altrui fatto ingiusto.

In specie, il ricorrente sosteneva che l'atteggiamento da lui tenuto non potesse integrare gli estremi per una penale responsabilità a titolo di diffamazione aggravata, in quanto la reazione - seppur non immediata - si era sviluppata in un contesto di estenuante conflittualità interpersonale tra gli ex coniugi; contraddistinto, in verità, da un perdurante clima di tensione che, sovente, sfociava in minacce e vessazioni perpetrate dall'ex moglie verso l'imputato, tra cui l'aver ostacolato quest'ultimo all'abituale frequentazione della prole, al punto da determinare, di fatto, un perdurante e persistente stato di ira.

Per quel che concerne il secondo motivo di ricorso, la difesa eccepiva violazione di legge e omessa violazione di legge, in relazione all'art. 62-bis c.p., poiché la Corte di Appello di Catania, nel negare l'attuazione delle circostanze attenuanti generiche, avrebbe circoscritto la propria motivazione, in modo generico, ad aspetti già emersi nel corso della trattazione circa l'esimente putativa della provocazione, di cui all'art. 599, co. 2, c.p., effettuando, quindi, un mero rinvio a quanto era stato già, in precedenza, argomentato.

Più in particolare, l'iter argomentativo s'incentrava sull'insussistenza del "fatto ingiusto" che non sarebbe idonea ad escludere, in modo legittimo, l'omesso riconoscimento e la conseguente disapplicazione delle circostanze attenuanti generiche al caso di specie. In aggiunta, la difesa - onde richiedere l'applicazione delle attenuanti generiche – evidenziava il corretto e leale comportamento processuale dell'imputato, elemento totalmente ignorato dalla Corte di Appello territorialmente competente.

In merito al terzo motivo di ricorso, la difesa eccepiva violazione di legge e omessa motivazione in rapporto alla prescrizione, di cui all'art. 157 c.p., sollecitando il Supremo Collegio a verificare se il reato sia effettivamente prescritto, in quanto i fatti oggetti di contestazione risalivano al mese di Agosto del 2013 e, quindi, nel caso, invitare la Corte a pronunciare l'annullamento della sentenza oggetto di impugnazione.

La Quinta Sezione della Corte di Cassazione - sentenza del 9 maggio 2022, depositata il 24 giugno 2022, n. 24614 – ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dall'imputato. Ciò posto, è indispensabile, dunque, soffermarsi sulle motivazioni che hanno determinato la declaratoria di infondatezza dei summenzionati motivi, per cui il giudice di legittimità non ha riconosciuto la sussistenza dell'esimente di cui all'art. 599, co. 2., c.p. e l'attuazione delle circostanze attenuanti generiche.

A tal riguardo, la decisione della Cassazione si conforma al percorso logico-giuridico della Corte di Appello di Catania: la mancata concessione dell'art. 62-bis c.p. si fonda essenzialmente sul requisito della non incensuratezza dell'imputato, in ragione dei numerosi procedimenti penali a suo carico.

Per ciò che riguarda il secondo motivo di ricorso, ossia l'omessa considerazione, da parte dell'organo giudicante, del corretto comportamento processuale dell'imputato, la Cassazione ha ritenuto possibile esentare il giudice del merito - nel momento in cui formula le motivazioni inerenti al rifiuto della concessione delle attenuanti - dal considerare qualsiasi elemento favorevole o no, dovendosi vagliare esclusivamente quegli elementi che si mostrano decisivi o rilevanti per la decisione.

Quanto al terzo ed ultimo motivo, l'inammissibilità di quest'ultimo dipende essenzialmente dall'infondatezza dei primi due, in quanto la prescrizione del reato è avvenuta successivamente alla sentenza emessa dalla Corte di Appello di Catania.

• L'inidoneità della condizione di mera occasionalità, tra fatto provocante e fatto provocato, per il riconoscimento dell'esimente dello stato d'ira

Volendo ricostruire il percorso argomentativo su cui si incentra la decisione della Cassazione, è necessario analizzare tutti quegli aspetti concernenti l'omesso riconoscimento dell'esimente putativa dello stato d'ira, determinato dall'ingiusto fatto altrui, come previsto dall' art. 599, co. 2, c.p., in rapporto alla fattispecie della diffamazione aggravata in oggetto .

L'ammissione dell'esimente della provocazione consta di parametri applicativi assai stringenti.

Più in particolare, sebbene la difesa abbia accuratamente rinviato ad alcuni precedenti giurisprudenziali in materia, ove si prediligeva una concezione relativa - un'accezione certamente più ampia della reazione conseguente alla provocazione - il giudice di legittimità respinge tale tesi sostenendone la configurabilità nei soli casi in cui sussista un rapporto eziologico, ovvero un nesso causale determinante fra la reazione (fatto provocato) e il fatto ingiusto altrui (fatto provocante), non essendo sufficiente rilevare, di fatti, un rapporto di mera occasionalità fra questi due fattori.

È ben chiaro che la struttura difensiva, specialmente per il primo motivo di ricorso, si sia mostrata inefficace rispetto alle finalità che persegue, in quanto basata sul parametro della tempestività e dell'immediatezza della reazione del ricorrente, giammai riferendosi agli aspetti soggettivi (animus diffamandi) e, quindi, alla volontà dell'agente, intesa, invero, nella piena consapevolezza di profferire frasi offensive, congrue a ledere l'altrui onore e la reputazione dell'ex moglie.

Soffermandoci nuovamente sulla componente subiettiva del delitto di diffamazione , di cui all'art. 595 c.p., è richiesto, come è noto, il dolo generico . Ciò determina - secondo il ragionamento della Corte, nel caso in esame - l'irrilevanza della sussistenza di finalità ulteriori, seppur perseguite dall'agente, nonché di specifici moventi, nonostante siano sussistenti nel momento in cui il fatto delittuoso è stato compiuto.
Si tratterebbe, invero, di coefficienti che potrebbero essere oggetto di valutazione, da parte dell'organo giudicante, solo se determinanti per l'applicazione delle attenuanti oppure per mitigare e, dunque, ridurre consistentemente il trattamento sanzionatorio da comminare.

In base a ciò, la Quinta Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione ha applicato il consolidato principio secondo cui, ai fini della sussistenza dell'elemento psicologico della diffamazione, non è richiesta la sussistenza dell'animus iniurandi vel diffamandi , essendo già sufficiente il dolo generico che può, invero, assumere le forme del dolo eventuale , visto e considerato che l'agente ha pronunciato, in modo consapevole , frasi ed espressioni che, secondo l'interpretazione comune, sono socialmente avvertite, in via oggettiva, come lesive dell'altrui reputazione .

È evidente che la Corte di Cassazione, nella sentenza in esame, sia ulteriormente intervenuta nel delineare i contorni d'azione dell'oggettività giuridica , in quanto il delitto di cui all'art. 595 c.p. non è esclusivamente posto a presidio dell'onore e della reputazione individuale, ossia della dignità del singolo, ma anche di quella componente socio-collettiva, di quei rapporti che si formano nella comunità e, dunque, seguendo l'accezione individualistica, della vita relazionale di ogni individuo con il prossimo.

Proprio per questi validi motivi, si ritiene che i giudici della Corte di Appello di Catania abbiano adeguatamente valutato non solo il contesto, ma il valore stesso delle comunicazioni intercorse fra le parti sul social "Facebook"; individuando, di fatto, nell'espressioni e frasi adoperate dal ricorrente, una precipua idoneità offensiva, congrua a ledere effettivamente l'onore e la reputazione dell'ex moglie, specie se si considera che l'utilizzo di "Facebook" costituisce, notoriamente, una piattaforma che si contraddistingue per la particolare diffusività e rapidità delle pubblicazioni ivi effettuate. Ciò lascia presumere quale sia il reale intendimento criminoso dell'imputato, ulteriormente espresso nella stessa scelta del mezzo comunicativo, volendo, quindi, rendere pubblico, in modo celere, il proprio disprezzo verso la sua ex moglie, offendendo la di lei reputazione.

Da ciò ne deriva che la decisione della Quinta Sezione della Cassazione si focalizza essenzialmente sull'insieme di quegli elementi per cui individuare quale sia la volontà dell'imputato.

La Corte oltrepassa, dunque, quegli aspetti sollevati, nel merito, dalla difesa, in tema di immediatezza della reazione, non soffermandosi, invero, sui complessi profili che attengono alla motivazione dell'omesso riconoscimento dell'esimente, circoscrivendone la non applicazione alla sola insufficienza dell'evidenze probatorie rispetto al requisito dell'immediatezza della reazione dell'imputato, determinata da un fatto ingiusto altrui.

• L'eccessiva oggettivizzazione della componente soggettiva dell'animus diffamandi

Le conclusioni a chi giunge la Corte di Cassazione sembrano principalmente incentrarsi su di un iter decisionale totalmente asservito alla ricostruzione, in modo esclusivo, dell'elemento soggettivo del delitto in parola, ovvero al c.d. animus diffamandi , al punto da far emergere taluni profili di criticità circa questa scelta.

Questa riflessione sembra risentire, forse eccessivamente, del modo in cui la Corte esamina la condotta del reo che pare - a nostro sommesso avviso - condizionata sul piano oggettivo, sino a far presumere che tale decisione possa propinare una forma di responsabilità oggettiva per il fatto illecito, oggetto di attuale contestazione.

Ciò sarebbe dedotto – si ribadisce - dalle modalità in cui la Corte riconosce la sussistenza dell'elemento psicologico, da cui dipende, forse impropriamente – secondo le scarne motivazioni della sentenza – il rigetto della richiesta dell'applicazione dell'esimente di cui all'art. 599, co. 2, c.p.; scelta che sarebbe scaturita solo in virtù della pubblicazione delle frasi e delle espressioni offensive sul social "Facebook".

Dall'analisi complessiva della sentenza in oggetto, si può sostenere che il Supremo Collegio abbia omesso qualsiasi accertamento sulla sussistenza di un rapporto eziologico e, quindi, sull'effettivo collegamento tra la provocazione – vale a dire le minacce e le continue vessazioni poste dall'ex coniuge e dalla di lei famiglia - il conseguente stato d'ira e, dunque, la reazione dell'imputato, determinata dall'altrui fatto ingiusto, atteggiamento che si è tradotto nella pubblicazione di espressioni offensive sulla piattaforma social suindicata.

Oltremodo, non veniva effettuata nessuna valutazione su quegli aspetti che potessero far emergere possibili iniziative di natura penale, seppur presentate precedentemente, dal ricorrente verso la ex moglie e contro gli altri componenti del medesimo nucleo familiare di quest'ultima, in rapporto sia ai singoli che ai molteplici episodi che abbiano potuto causare un effettivo danno per l'imputato, cioè a dire i pedinamenti, le telefonate, i messaggi e gli altri atti persecutori da questi subiti. Per di più, non veniva minimamente considerato il "tempo di reazione", ovvero quel lasso temporale intercorso tra questi eventi e la reazione dell'imputato, ovvero la pubblicazione dei contenuti lesivi dell'altrui onore sulla piattaforma summenzionata.

È indubbio come i profili argomentativi su cui si basa il rigetto della Cassazione - in merito alla sussistenza di una condizione di occasionalità tra il fatto provocatore e il provocato - appaiono viziati da superficialità, in quanto capaci di sottrarre rilevanza e fondatezza ad ulteriori valutazioni che dovrebbero, almeno potenzialmente, interessare e, quindi, coinvolgere il percorso di individuazione sia dell'elemento oggettivo che subiettivo delle fattispecie penali coinvolte in tale decisione.

• I differenti margini per un giudizio di legittimità ponderato sul riconoscimento del principio del favor rei

Alla luce di quanto emerso nel corso della trattazione, è possibile conclusivamente ritenere che la pronuncia della Suprema Corte si discosti grandemente dal riconoscimento di uno scenario risolutivo, altresì alternativo, rispetto alle conclusioni a cui giunge.

Sembra evidente che la decisione non predilige una soluzione conforme al principio del favor libertatis, altresì non adesiva al canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio, visto che non vengono esaminati – come già avvenuto nei pregressi giudizi di merito – quelle componenti ultronee, potenzialmente favorevoli all'imputato, in modo da giungere ad un eventuale giudizio di annullamento della sentenza con rinvio. Ciò sarebbe delineato dalla stessa prova dell'accusa che non supera il vaglio dell'oltre ragionevole dubbio, residuando, di contro, elementi controversi, equiparabili alla mancata prova.

In base a quanto sinora osservato, si può asserire che le considerazioni della Cassazione - correlativamente agli elementi probatori presenti nei precedenti giudizi – sembrano assai indeterminate e generiche, nonché inidonee ad integrare il rigetto dell'attuazione dell'esimente dello stato d'ira per la condotta realizzata dal ricorrente.

Sarebbe stato preferibile, a parere di chi scrive, che la Cassazione predisponesse un sindacato sulla correttezza del procedimento di valutazione delle prove, ovvero di effettuare un controllo, da parte del giudice di merito, sui criteri predeterminati, per tale fase, dall'art. 192 c.p.p., cioè ai parametri di completezza, correttezza e logicità del percorso su cui si è fondata la sentenza della Corte di Appello di Catania.

Si potrebbe dedurre che il Supremo Collegio abbia volutamente sottrarsi a tale attività di "controllo" , onde non imbattersi nel concreto rischio di oltrepassare l'insita ed esclusiva competenza di legittimità, appiattendo, di fatto, la propria decisione alle pregresse statuizioni del merito.
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*A cura di Pierluigi Zarra, Abilitato all'esercizio della professione forense presso la Corte di Appello di Roma; dottorando in Scienze Giuridiche presso l'Università di Foggia e specialista in professioni legali presso l'Università di Roma "Sapienza"

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