Responsabilità

Il danno da trasfusione viene risarcito solo dalla comparsa dei sintomi

Il ristoro non scatta dal contagio, né si cumula con l’indennizzo ex legge 210/92

di Maurizio Hazan

Il danno patito per aver contratto un virus a seguito di una emotrasfusione con sangue infetto va risarcito non dal momento del contagio ma da quello – che potrebbe essere anche di molto successivo – in cui l’agente patogeno si sia effettivamente rivelato con manifestazioni sintomatiche tali da incidere sulla qualità della vita del danneggiato. È questo il principio affermato dalla Cassazione con la sentenza 25887 del 2 settembre 2022 , che cassa la decisione con cui la Corte d’appello di Firenze, liquidando il danno biologico subito dall’attore per aver contratto il virus dell’epatite HBV e HVC, aveva assunto quale parametro l’età del danneggiato al momento della trasfusione e non invece quella che aveva al tempo in cui la patologia gli era stata diagnosticata.

Nel caso esaminato, peraltro, lo stesso danneggiato aveva pacificamente ammesso di non aver mai accusato alcun sintomo delle patologie contratte sino a quando, in occasione di alcuni accertamenti sanitari eseguiti vent’anni dopo il contagio, gli era stata rilasciata una diagnosi di epatite che gli avrebbe sconvolto la vita, causandogli uno stato di forte stress e depressione e costringendolo a sottoporsi a continue cure, senza prospettive di guarigione. Risultando provato il nesso di causa tra la malattia e l’emotrasfusione con sangue infetto, l’attore – dopo aver ottenuto l’indennizzo previsto dalla legge 210/1992 – ha dunque chiesto al ministero della Salute l’integrale risarcimento del danno alla salute causato dall’evento illecito.

La Cassazione ricorda alcuni principi fondamentali, che costituiscono regole indefettibili a cui attenersi nella corretta liquidazione del danno alla salute. In primo luogo il “danno risarcibile” non è mai “in re ipsa” e non è perciò costituito dalla lesione di un diritto, che è solo il necessario presupposto per l’esistenza del danno. Non va dunque confuso il piano della causalità materiale, meramente eventistico, con quello della causalità giuridica: il danno, per esser risarcito, deve comunque manifestarsi con una perdita concreta, sia essa patrimoniale o di altro tipo. Ciò vale anche per il danno biologico, che non è tale per il solo fatto che una lesione si sia verificata: il risarcimento del danno è possibile solo se, e in quanto, sia dimostrato che quella lesione ha prodotto una vera e propria compromissione di una o più abilità della vittima nello svolgimento delle attività quotidiane. In mancanza di questa compromissione (come statuito dall’ordinanza 7513 del 2018) «la lesione della salute non sarebbe nemmeno un danno apprezzabile sul piano medico legale e giuridicamente risarcibile».

In questo senso depone, del resto, l’articolo 138 del Codice delle assicurazioni, che definisce il danno biologico come la lesione della salute che esplica «un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato».

L’attore, dunque, ha certamente diritto al risarcimento ma solo dal momento in cui il contagio, rivelatosi tardivamente, abbia effettivamente pregiudicato la qualità della sua vita. Tale risarcimento, peraltro, non potrà cumularsi con l’ammontare dello speciale indennizzo erogato dal Fondo previsto dalla legge 210/1992: questo indennizzo deve essere dunque scorporato dal montante risarcitorio riconosciuto a favore della vittima.

In conclusione, la Cassazione ribadisce un principio – quello dell’irrisarcibilità del danno “in re ipsa” – che nel settore del danno non patrimoniale alla persona e del danno alla salute non sempre è adeguatamente preso in considerazione (si pensi alla liquidazione dei danni in caso di lesioni di così modesta entità da non aver in alcun modo inciso sullo stile di vita del danneggiato o, ancora, ad alcuni automatismi liquidativi sovente riscontrati nel risarcimento di taluni danni “parentali”).

Rimane, infine, qualche ombra su quanto la Corte afferma a proposito del così detto rischio latente, ossia del rischio, correlato alla lesione, di contrarre malattie in futuro o di morire ante tempus. Anche ai fini della risarcibilità di tali pregiudizi, e della diminuzione delle aspettative di vita (da intendersi essi stessi come danno alla salute, Cassazione 26118/2021) occorre che il danneggiato sia consapevole dei rischi ai quali si trova esposto e che questa conoscenza abbia prodotto in lui un apprezzabile turbamento. Anche a voler condividere tale assunto, il risarcimento non potrebbe comunque esser condizionato dal momento della lesione, dipendendo da un fattore di rischio certamente esistente ma non ancora concretizzatosi al momento in cui se ne domanda il ristoro.

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