Comunitario e Internazionale

Ricercatori universitari, Corte Ue: legittimo il tetto di 5 anni per i contratti a termine

Il caso riguarda un ricercatore di "Tipo A" assunto presso l'Università "Roma Tre"

di Francesco Machina Grifeo

La normativa italiana sui contratti a termine dei ricercatori universitari appare conforme all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato. Lo ha stabilito la Corte Ue con la sentenza C-326/19 depositata oggi. Il caso riguardava un ricercatore di "tipo A", assunto dall'Università degli Studi «Roma Tre», che allo scadere del secondo contratto aveva chiesto una ulteriore proroga al fine di trasformarlo, in seguito, in contratto di lavoro a tempo indeterminato.

In particolare per i giudici di Lussemburgo la clausola 5 dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato (concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale in forza della quale è prevista, per quanto riguarda l'assunzione dei ricercatori universitari, la stipulazione di un contratto a tempo determinato per un periodo di tre anni, con una sola possibilità di proroga per un periodo massimo di due anni. Subordinando inoltre la stipulazione di tali contratti, da un lato, alla condizione che siano disponibili risorse «per la programmazione, al fine di svolgere attività di ricerca, di didattica, di didattica integrativa e di servizio agli studenti», e, dall'altro, la proroga di tali contratti alla «positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte».

Mentre non è necessario che la normativa stabilisca "i criteri oggettivi e trasparenti che consentano di verificare se la stipulazione e il rinnovo di tali contratti rispondano effettivamente a un'esigenza reale, se essi siano idonei a conseguire l'obiettivo perseguito e siano necessari a tal fine".

La Corte constata che in Italia vi sono due categorie di ricercatori universitari: i ricercatori «di tipo A», che non hanno direttamente accesso, nel corso della loro carriera, al posto di professore associato, e i ricercatori «di tipo B», che invece possono accedervi direttamente. Nel caso di specie, si tratta di un contratto di tipo A. Ed osserva che l'accordo quadro assegna agli Stati membri un obiettivo generale, consistente nella prevenzione dell'utilizzo abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato. Gli Stati membri restano liberi di scegliere i mezzi per conseguire l'obiettivo, purché essi non rimettano in discussione lo scopo o l'effetto utile dell'accordo quadro.

Per quanto riguarda il contratto di ricercatore universitario di tipo A, la legge italiana fissa una durata massima di tre anni e autorizza una sola proroga per due anni. Le persone che stipulano un contratto di tipo A sono informate, ancor prima di sottoscrivere il contratto, che il rapporto di lavoro non potrà durare più di cinque anni. Pertanto, la legge italiana contiene due delle misure indicate nell'accordo quadro per evitare gli abusi, ossia i limiti riguardanti la durata massima totale dei contratti a tempo determinato e il numero di possibili rinnovi.

La Corte conclude che, grazie a questi due limiti previsti dalla legge italiana, l'assenza di precisazioni quanto al carattere reale e provvisorio delle esigenze da soddisfare mediante il ricorso a contratti a tempo determinato non comporta una violazione dell'accordo quadro.

Del resto, conclude, la cessazione degli effetti di un contratto di ricercatore a tempo determinato, assunto in forza di un contratto di lavoro di tipo A, non comporta necessariamente un'instabilità dell'impiego, in quanto essa consente al lavoratore interessato di acquisire le qualifiche necessarie per conseguire un contratto di tipo B, il quale può, a sua volta, portare a un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in qualità di professore associato.

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