Amministrativo

Simpatie per l'Islam radicale, espulsione anche senza responsabilità penale

Il Consiglio di Stato, n. 3886/2021, ha chiarito che la finalità di prevenzione giustifica la misura anche se il reato non è stato compiuto

di Francesco Machina Grifeo

L'espulsione dello straniero ritenuto vicino all'estremismo islamico è legittimo perché ha finalità di prevenzione. Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 19 maggio 2021, n. 3886 (Pres. Frattini, Est. Noccelli), chiarendo che a fronte di una minaccia per la sicurezza nazionale non è necessario che sia comprovata la responsabilità penale e neppure che il reato sia stato già compiuto.

La vicenda - Il caso riguardava un cittadino tunisino residente in Italia con permesso di soggiorno per motivi di famiglia, coniugato con una italiana e padre di un minore sempre residente in Italia. Il Ministero dell'Interno ha poi accertato che il ricorrente aveva in più occasioni fornito false generalità ed riportato diverse condanne penali e che inoltre si era separato nel 2015. Il Tribunale di Padova avevano previsto che il figlio fosse collocato presso la nonna materna, senza alcun obbligo di mantenimento del padre, in ragione del suo stato di difficoltà economica. Dagli accertamenti effettuati era emerso poi che aveva assunto posizioni religiose radicali, consultando e condividendo contenuti inerenti la guerra siro-irachena, dai quali era lecito desumere una vicinanza alla causa dell'autoproclamato Stato Islamico. Aveva inoltre manifestato profondi sentimenti di avversione nei confronti di coloro che praticano il cristianesimo.

La motivazione - Il Tribunale ricorda con riferimento all'espulsione ex art. 3, comma 1, Dl n. 144 del 2005 (ma con argomentazioni ben estendibili a tale misura adottata ai sensi dell'art. 13 del Dlgs n. 286 del 1998) che si tratta di una disposizione che prevede procedure pienamente assimilabili alle misure di sicurezza che si adottano con finalità di prevenzione e che, avendo come finalità quella di prevenire il compimento di reati, non richiede che sia comprovata la responsabilità penale e neppure che il reato sia stato già compiuto.

Infatti, prosegue la decisione, il presupposto per l'espulsione è costituito solo dai fondati motivi per ritenere che la presenza dello straniero possa agevolare in vario modo organizzazioni o attività terroristiche e, comunque, mettere in pericolo, con azioni anche proselitistiche, la sicurezza dello Stato. Ed è dunque solo questo il parametro da adottare per valutare la legittimità del provvedimento e, cioè, se esso sia in grado di prevenire la concreta possibilità di comportamenti atti a mettere in pericolo l'ordinamento e i suoi cittadini. Nella specie, afferma il Collegio, il provvedimento del Prefetto enuncia elementi di fatto più che sufficienti.

Come è stato ben messo in rilievo dalle Sezioni Unite, continua il ragionamento dei giudici, nel caso in cui il provvedimento di espulsione sia stato adottato per motivi di prevenzione del terrorismo o, più in generale, a causa della pericolosità dello straniero per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato, la posizione giuridica dell'interessato è di interesse legittimo e la giurisdizione nella relativa controversia spetta al giudice amministrativo (cfr. art. 3, comma 4, del già citato d.l. n. 144 del 2005), «essendo rimessa all'amministrazione, non una mera discrezionalità tecnica e ricognitiva al cospetto di ipotesi già individuate e definite dal legislatore nel loro perimetro applicativo, ma una ponderazione valutativa degli interessi in gioco» (Cass., Sez. Un., 27 luglio 2015, n. 15693).

Una ponderazione comparativa correttamente svolta dal Ministero dell'Interno, avuto riguardo a tutti i gravi elementi a carico dell'odierno appellante che dimostrano una pericolosissima vicinanza al fondamentalismo islamico.

Non solo, per la Sezione la tutela della vita privata e familiare, sancita anche dall'art. 8 della CEDU, non è incondizionata, posto che l'ingerenza dell'autorità pubblica nella vita privata e familiare è consentita, ai sensi dell'art. 2 della CEDU, se prevista dalla legge quale misura necessaria ai fini della sicurezza nazionale, del benessere economico del Paese, della difesa dell'ordine e della prevenzione dei reati, della protezione della salute e della morale e della protezione dei diritti e delle libertà altrui.

Un approdo condiviso dalla Corte europea dei diritti dell'uomo secondo cui la commissione di gravi reati, come quelli di natura terroristica, ben può legittimare l'espulsione dello straniero senza che ciò implichi una illegittima ingerenza nella vita familiare e al conseguente violazione dell'art. 8 CEDU (v., tra le tante, le sentenze 7 agosto 1996, C. c. Belgio, ric. n. 21794/93; 24 aprile 1996, Boughanemi c. Francia, ric. n. 22070/93; 22 giugno 2004, Ndangoya c. Svezia, ric. n. 17868/03; 13 dicembre 2005, Pello-Sode c. Svezia, ric. n. 34391/05).

La Corte ha infatti enunciato precisi criteri ai quali si deve ispirare il giudice nazionale (v. le sentenze, Boultif c. Suisse, ric. n. 54273/00, § 40, Üner c. Pays-Bas, ric. n. 46410/99, §§57-58) per appurare «se una misura d'espulsione è necessaria in una società democratica e proporzionata rispetto al fine legittimo perseguito» e, alla luce di tali criterî e avuto riguardo agli elementi analizzati nel caso di specie e sin qui ricordati, ha ritenuto la Sezione recessivo l'interesse dello straniero alla vicinanza al figlio.

Infine, in una società democratica la tutela dell'ordine pubblico contro la minaccia del terrorismo può giustificare il sacrificio dei rapporti familiari se l'allontanamento dello straniero è misura necessaria e proporzionata a tale legittimo scopo, non potendo essere scongiurata altrimenti la minaccia reale di un attentato alla sicurezza pubblica e all'ordine costituito (v., circa la legittimità di analoga misura adottata dall'Italia contro un cittadino tunisino, anche la sentenza della Corte nel caso Cherif. et. a. c. Italie, ric. 1860/07).

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