Responsabilità

Post e account cancellati ingiustamente: i social devono risarcire i danni agli utenti

Lo ha ribadito la Corte di appello dell'Aquila con la sentenza 1659/2021

di Marisa Marraffino

L’utente ingiustamente bannato da un social network ha diritto di ottenere il risarcimento del danno subìto a causa della sospensione delle proprie relazioni sociali. Lo ha ribadito la Corte d’appello dell’Aquila con la sentenza 1659 pubblicata lo scorso 9 novembre che fa il punto sul rapporto contrattuale che si instaura quando ci si iscrive a una community virtuale. La vicenda trae origine dal ricorso con rito sommario presentato da un utente sospeso da Facebook per oltre quattro mesi per aver pubblicato alcune foto di Mussolini, didascalie e commenti che evocavano la sua appartenenza politica, oltre a post taglienti e sprezzanti. Il social network aveva sospeso in più occasioni l’account per violazione degli «standard della comunità».

Ne era seguito il ricorso dell’utente, accolto dal Tribunale di primo grado, che aveva condannato Facebook a un risarcimento di 15mila euro a titolo di danno morale.

L’impugnazione proposta da Facebook ha dato l’occasione ai giudici d’appello per fare il punto sui dritti e i doveri di chi si iscrive a un social network.

Intanto, si stipula un contratto per adesione mediante il ricorso a moduli online predisposti unilateralmente dal social network alle cui clausole si applica la legge italiana. L’utente/consumatore può scegliere la giurisdizione competente in base al regolamento Ce 593/2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali. L’adesione al contratto comporta il sorgere di doveri reciproci. Se da un lato Facebook mette a disposizione una community, dall’altro l’utente concede al social network la facoltà di usare, a determinate condizioni, i propri dati personali. Si tratta quindi di un contratto a titolo oneroso e a prestazioni corrispettive, dove il “prezzo” pagato dall’utente è rappresentato dalla concessione per fini commerciali dei propri dati personali.

Ogni social network può quindi introdurre clausole che gli attribuiscono poteri di rimozione dei post degli utenti e di sospensione degli account, che non possono essere considerate vessatorie. Si tratta infatti di soggetti privati che offrono un servizio non essenziale e che possono quindi prevedere autonomamente condizioni condivise per la corretta fruizione delle proprie piattaforme. È però dovere dei social network valutare attentamente se i post risultino davvero offensivi o contrari agli “standard” della comunità prima di sospendere o rimuovere un account.

Sulla base di questa premessa, la Corte d’appello ha ritenuto lecite le prime due sospensioni dell’account effettuate per commenti lesivi dell’altrui reputazione, visto che l’utente aveva, tra l’altro, definito “stupido” il proprio interlocutore, mentre ha ritenuto illegittime le successive, visto che «la mera pubblicazione di una foto con un commento che si limita all’espressione del proprio pensiero (…) non si ritiene sufficiente a violare gli standard della comunità».

Per questo i giudici hanno ridimensionato il risarcimento dovuto, quantificandolo in 3mila euro complessivi.

Si tratta, a ben vedere, di un giudizio di bilanciamento delicato, che però impone ai social network un dovere di attenta verifica delle segnalazioni. Del resto, un utente potrebbe chiedere e ottenere dai social la rimozione di contenuti ritenuti in prima battuta erroneamente «conformi agli standard della comunità».

Non è un caso che già in passato altre pronunce abbiano affermato il diritto dell’utente alla riattivazione dei propri account sospesi o rimossi senza spiegazioni. È accaduto a Bologna dove il Tribunale ha condannato Facebook a risarcire 14mila euro di danni a un utente, che aveva subìto non solo la sospensione di account e pagine social, ma anche la cancellazione dei dati (ordinanza del 10 marzo 2021).

Dello stesso avviso il Tribunale di Pordenone che aveva condannato Facebook a riattivare immediatamente il profilo di un utente sospeso per aver pubblicato un estratto di una partita di tennis, poi immediatamente cancellato, che sarebbe stato protetto da copyright. Anche in questo caso per il giudice non c’è dubbio che l’utente abbia diritto di difendersi e a veder riattivato il proprio profilo quando la condotta non sia così grave da legittimare la chiusura dell’account. A ribadire il concetto la condanna disposta dal giudice al pagamento di 150 euro di indennizzo per ogni giorno di ritardo nella riattivazione dell’account ingiustamente sospeso (ordinanza del 10 dicembre 2018).

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