Penale

Carcere, "inumano e degradante" il wc nella stanza di detenzione

La Cassazione, sentenza 13660 depositata oggi, ha giudicato inammissibile il ricorso del ministero della Giustizia contro la riduzione di pena disposta dal Tribunale di Sorveglianza di L'Aquila

di Francesco Machina Grifeo

La Cassazione boccia come "inumano e degradante" il wc all'interno della stanza detentiva affermando che la separazione assicurata da un muretto alto un metro e mezzo non cambia le cose, né sotto il profilo della privacy né della salubrità. Scatta dunque il diritto al ristoro per il detenuto che, nel caso specifico, si è tradotto in un ulteriore sconto di pena di 244 giorni, per i periodi trascorsi presso gli istituti di Rebibbia a Roma e di Bari e Foggia. Sì perché in Italia sono ancora molte le celle che versano in queste condizioni, secondo un report di Antigone il 5%.

La Prima Sezione penale, sentenza 13660 depositata oggi, ha così giudicato inammissibile il ricorso del ministero della Giustizia contro la riduzione di pena disposta dal Tribunale di Sorveglianza di L'Aquila. Secondo Via Arenula, e viene da chiedersi come il ministero di Giustizia possa ancora sostenere simili posizioni, il ristoro (rispetto alla carcerazione nell'istituto di Rebibbia) è stato concesso "senza valutare la situazione detentiva complessiva ed attribuendo rilevanza decisiva alla presenza nella stanza detentiva di un WC, trascurando tuttavia che esso era separato dall'ambiente preposto all'espletamento delle funzioni di vita quotidiana da un muro di altezza pari a metri 1,50, quindi idoneo ad evitare che l'uso avvenisse alla vista di terze persone, così salvaguardando la riservatezza".

Per la Terza Sezione penale di Piazza Cavour all'opposto il provvedimento impugnato ha fornito una adeguata giustificazione sul punto contestato dal Ministero osservando che la "presenza del WC all'interno della stessa stanza dove il detenuto cucina, mangia e dorme senza un'effettiva separazione aveva inciso sulla condizione detentiva rendendola degradante e comprimendo non solo il diritto alla riservatezza ma anche la salubrità dell'ambiente".

Riguardo poi all'altro motivo di ricorso secondo il quale vi sarebbe stata una errata applicazione del principio dell'onere della prova, in quanto il Tribunale di sorveglianza, con riferimento ai luoghi di detenzione di Bari e Foggia, "ha convalidato, sic et sempliciter, le allegazioni del detenuto senza considerare l'incolpevole impossibilità dell'amministrazione di reperire i dati istruttori" e senza "esperire vie istruttorie alternative", la Suprema corte ricorda che "il Tribunale ha fatto buon governo del consolidato principio di diritto, secondo cui, nei procedimenti instaurati ai sensi dell'art. 35-ter Ord. pen., le allegazioni dell'istante sul fatto costitutivo della lesione, addotte a fondamento di una domanda sufficientemente determinata, e riscontrata sotto il profilo dell'esistenza e della decorrenza della detenzione, sono assistite da una presunzione relativa di veridicità del contenuto, per effetto della quale incombe sull'Amministrazione penitenziaria l'onere di fornire idonei elementi di valutazione".

Dunque, a fronte della carenza di informazioni richieste all'Amministrazione penitenziaria - che o non aveva risposto o si era dichiarata impossibilitata a fornirle - il Tribunale di sorveglianza ha legittimamente considerato fondate le allegazioni del detenuto.

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