Tragedia di Rigopiano, nuovo processo per accertare la catena delle responsabilità
Depositate le motivazioni della sentenza della Cassazione (n. 9906/2025) che fissa dei principi su: rapporti di causalità, responsabilità colposa, colpa generica, rifiuto di atti di ufficio
Se la strada provinciale che conduce all’hotel Rigopiano “fosse stata liberata dalla neve”, la mattina del 18 gennaio, quando gli ospiti tentarono invano di lasciare l’albergo, la tragedia non si sarebbe verificata. È quanto emerge dalle motivazioni, lunghe 158 pagine, della sentenza della Cassazione n. 9906 depositata l’11 marzo scorso, che accogliendo parzialmente il ricorso del Procuratore generale della Corte di appello di L’Aquila, ha disposto un nuovo giudizio presso la Corte di appello di Perugia per dieci imputati nel processo sulla tragedia abruzzese.
Così la Suprema corte ricostruisce il fatto: “In un contesto di prolungato ed intenso maltempo, e dopo che in mattinata erano state avvertite alcune scosse di terremoto, il 18 gennaio 2017, tra le ore 16.49 e le 17.00, dalla linea di cresta del monte Siella, nel massiccio del Gran Sasso, si distaccava una valanga di enormi dimensioni, che si abbatteva sull’hotel ‘Rigopiano’, situato nell’omonima località del comune di Farindola, in provincia di Pescara, determinando il trascinamento verso valle della struttura per oltre quaranta metri. Ne derivavano la morte di ventinove persone, delle quaranta presenti in albergo tra ospiti e personale, nonché le lesioni di altre nove, tutte impossibilitate ad allontanarsi dalla struttura a causa dell’inagibilità dell’unica via di fuga, costituita dalla strada provinciale “SP8”, resa impercorribile da un’abbondante precipitazione nevosa verificatasi nelle notte”.
I giudici di legittimità sottolineano che la disponibilità dei mezzi spazzaneve avrebbe dovuto essere costantemente monitorata. “Garantire la viabilità delle strade e tutelare l’incolumità delle persone – scrive la Corte – dipende dalla pronta disponibilità degli strumenti necessari”.
Un altro snodo della sentenza riguarda la mancata realizzazione della Carta valanghe. La Corte spiega che, senza questo strumento, non fu possibile attivare le misure di prevenzione e mitigazione del rischio. La mancata redazione della Carta, infatti, ha bloccato l’intero sistema di protezione proprio nei suoi passaggi più significativi.
Le conseguenze di questa omissione sono state esiziali: se la Carta Valanghe fosse stata redatta, sarebbe seguita anche la Carta dei rischi locali delle valanghe. Ciò avrebbe impedito il rilascio dei permessi per la ristrutturazione dell’hotel tra il 2006 e il 2007, quando vennero realizzati un centro congressi e una Spa. In alternativa, sarebbero state adottate misure di sicurezza, come il divieto di utilizzo della struttura nei mesi invernali, quando il pericolo valanghe è maggiore.
Per la Cassazione, quindi, la tragedia poteva e doveva essere evitata. “La prevenzione più efficace per la sicurezza collettiva”, sottolineano i giudici, “era l’identificazione di Rigopiano come sito valanghivo”. Questa classificazione avrebbe dovuto avvenire ben prima del disastro, portando al divieto di accesso o all’imposizione di un utilizzo regolamentato delle strutture presenti.
Per gli avvocati Massimiliano Gabrielli e Alessandra Guarini, difensori di parte civile: “Per la prima volta viene tracciata in modo inequivocabile una struttura piramidale nelle omissioni colpose che parte dai vertici della Regione Abruzzo e si propaga lungo la catena decisionale, coinvolgendo anche i tecnici regionali e gli organi preposti alla prevenzione, fino alle istituzioni provinciali e comunali”. “La mancata realizzazione della Carta di Localizzazione del Pericolo Valanghe è stata identificata come l’omissione più grave, il nodo centrale di un sistema di inerzie e mancate azioni che hanno concorso fattivamente a determinare la tragedia. La Corte ha annullato le assoluzioni dei dirigenti regionali e disposto per loro un nuovo giudizio d’appello, riaffermando il principio della cooperazione colposa tra i vari livelli della pubblica amministrazione - aggiungono - Questo significa che i funzionari non potranno limitarsi a scaricare le responsabilità sui politici, ma dovranno dimostrare di averli sollecitati adeguatamente”.
“Fondamentale - sottolineano i legali - è anche il riconoscimento della distinzione tra le diverse responsabilità: mentre il sindaco di Farindola e i funzionari provinciali saranno riprocessati solo per omicidio colposo, i vertici regionali saranno dovranno rispondere del reato di disastro colposo. Questa distinzione ha un peso enorme per le parti civili il reato di omicidio colposo, a differenza del disastro colposo, è destinato a prescriversi prima ancora dell’inizio dell’appello bis”.
Dal punto di vista tecnico-giuridico, la sentenza ha fissato diversi principi di diritto. Con riguardo alla posizione di garanzia nelle organizzazioni complesse, si afferma che il giudice, per decodificare i reali assetti del potere decisionale, è tenuto a valutare l’attribuzione legislativa dei ruoli anche alla luce delle necessarie interazioni operative che le strutture realizzano al proprio interno. Per tale ragione, ha affermato la Corte nella motivazione, la posizione di garanzia non può delimitare ex se, in modo stringente, l’area di rilevanza penale, potendo e dovendo essere assegnato tale obiettivo alla successiva, concorrente e rigorosa indagine sulla colpa.
Quanto poi alla responsabilità colposa per gli eventi “imprevisti” a realizzazione istantanea od immediata, la Suprema corte ha affermato che diversamente dagli eventi “con preavviso”, non essendo preceduti da segnali, possono essere prevenuti o attenuati solo con l’adozione di cautele da assumere con largo anticipo, sicché solo queste ultime rileveranno ai fini del giudizio sulla colpa. Per cui la Cassazione ha annullato con rinvio la decisione della Corte di appello che aveva escluso la responsabilità dei funzionari del Servizio di prevenzione della Regione per non aver redatto la carta di localizzazione del pericolo di valanghe.
Con riguardo alla colpa generica, i giudici hanno affermato che il giudizio di prevedibilità, da formulare con valutazione ex ante, consiste non nella mera possibilità materiale di immaginare ciò che è naturalisticamente possibile, ma nell’obbligo di pronosticare un evento che abbia una probabilità statisticamente rilevante di verificarsi.
Per quanto concerne invece la posizione di garanzia del datore di lavoro, consistente nell’obbligo di protezione da fattori di rischio di dipendenti, ospiti e terzi presenti sul luogo di lavoro, la Cassazione afferma che essa non può estendersi al di là della sfera funzionale e logistica connessa all’attività professionale svolta. Sicché, nel caso di eventi lesivi determinati dal concretizzarsi di fattori di rischio riguardanti un’area esterna al luogo di lavoro ed estranei alla sfera di dominio del predetto, non può configurarsi una sua responsabilità per colpa per non aver previsto, nel documento di valutazione dei rischi di cui al Dlgs 9 aprile 2008, n. 81, tali fattori e non aver conseguentemente adottato adeguate misure di prevenzione.
Ed è questo il caso del gestore dell’albergo, chiamato a rispondere della morte e delle lesioni di ospiti e dipendenti, determinate dal sopraggiungere di una valanga in una situazione di isolamento della struttura per l’eccessivo innevamento e per la conseguente non percorribilità della strada pubblica che conduceva ad essa, la cui gestione era di competenza della Provincia.
In riferimento poi al rifiuto di atti d’ufficio, la VI Sezione ha affermato che l’omissione consapevole e volontaria dell’atto d’ufficio doveroso conserva la sua natura dolosa anche nel caso in cui il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio si siano a ciò determinati in conseguenza dell’impossibilità pratica di compiere tale atto, dovuta all’inadeguata organizzazione dell’ufficio di cui sono responsabili, ascrivibile a loro negligenza. Nel caso specifico, l’omessa tempestiva attivazione di dispositivi operativi imposti dalla normativa in materia di protezione civile nelle situazioni di emergenza, sarebbe dovuta all’assenza della doverosa organizzazione preventiva del servizio.
Infine, in tema di depistaggio dichiarativo, la Suprema corte ha affermato che il dovere di verità e di completezza gravante sul dichiarante in ordine ai temi indicati dall’Autorità che interroga concerne ogni circostanza che al predetto si presenti d’interesse, anche solo eventuale, per l’indagine o per il processo in cui è chiamato a deporre. Su questo punto, nella motivazione, la Corte ha affermato che tale conclusione si giustifica per far fronte all’esigenza di non lasciare sguarnita di tutela penale la fase iniziale del procedimento penale e per il fatto che il delitto, appartenente alla categoria dei reati propri, è posto in essere da soggetto che si presume in grado di comprendere la rilevanza delle informazioni di cui dispone.