Rgpd e transidentità: rettifica identità di genere senza prova di un trattamento chirurgico
Lo Stato membro che preveda l’evidenza del dato personale dell’identità di genere in caso di domanda di modifica non può subordinare la variazione alla circostanza che essa si fondi su un presupposto chirurgico
La Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza sulla causa C-247/23 ha affermato che in materia di dati personali e riconoscimento della cosiddetta transidentità non si può subordinare la modifica del dato personale al presupposto che la persona richiedente si sia sottoposta una trasformazione chirurgica.
La Corte Ue osserva che, in forza del Regolamento europeo generale sul trattamento dei dati personali e del principio di esattezza da esso enunciato la persona ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento, senza ingiustificato ritardo, la rettifica dei propri dati personali inesatti.
Il regolamento Rgpd ha di fatto concretizzato il diritto fondamentale, sancito principalmente dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che attribuisce a ogni individuo il diritto di accesso ai propri dati personali raccolti con quello corrispondente di vederseli rettificare. A tal riguardo, la Cgue ricorda che il carattere esatto e completo di tali dati deve essere valutato alla luce della finalità per la quale essi sono stati raccolti.
L’identità di genere appartiene sicuramente alla sfera personale e l’interessato può adeguare il dato al caso in cui abbia fatto una transizione e ciò non giustifica l’imposizione da parte del titolare del trattamento di un fatto quale la base chirurgica di tale passaggio.
La vicenda riguardava una cittadina iraniana cui era stato riconosciuto nel Paese membro Ue dove risiede il diritto di asilo.
Il caso a quo
L’iraniana aveva ottenuto lo status di rifugiato in Ungheria invocando la sua transidentità e producendo certificati medici rilasciati da specialisti in psichiatria e ginecologia. Secondo questi attestati, anche se tale persona era nata donna, la sua identità di genere era maschile. Nonostante il riconoscimento del suo status di rifugiato fosse avvenuto sulla base di tal certificazioni mediche la cittadina iraniana veniva iscritta dall’autorità ungherese come donna nel registro dell’asilo.
Anni dopo e sulla base degli stessi certificati medici, la persona coinvolta dalla vicenda aveva chiesto di rettificare l’indicazione del suo genere nel registro dell’asilo, fondando la sua domanda sul diritto riconosciuto dal Regolamento generale sulla protezione dei dati. Ma la domanda veniva respinta dall’autorità ungherese con la motivazione che la richiesta non non fosse fondata sulla dimostrazione che vi fosse stato un trattamento chirurgico di riassegnazione sessuale.
Il rinvio pregiudiziale
Da qui il ricorso ai giudici nazionali ungheresi che hanno poi operato il rinvio pregiudziale alla Cgue. Il giudice del rinvio - pur precisando che il diritto ungherese non prevede una procedura di riconoscimento giuridico della transidentità - ha chiesto alla Corte se, da un lato, il Rgpd imponga a un’autorità nazionale incaricata della tenuta di un registro pubblico di rettificare i dati personali relativi all’identità di genere di una persona fisica qualora tali dati non siano esatti e, dall’altro, se uno Stato membro possa subordinare, mediante una prassi amministrativa, l’esercizio del diritto di rettifica di tali dati alla produzione di prove, in particolare, di un trattamento chirurgico di riassegnazione sessuale.
La risposta della Cgue
In primis, la Corte afferma che lo specifico trattamento del dato sull’identità di genere rientra nella materia della privacy e precisa che spetta al giudice nazionale verificare l’esattezza del dato alla luce della finalità per la quale esso è stato raccolto. Se la raccolta di tale dato aveva lo scopo di identificare la persona interessata, detto dato sembrerebbe riguardare l’identità di genere vissuta da tale persona, e non quella che le sarebbe stata assegnata alla nascita. In tale contesto, la Corte precisa che uno Stato membro non può invocare l’assenza, nel proprio diritto nazionale, di una procedura di riconoscimento giuridico della transidentità per ostacolare l’esercizio del diritto di rettifica.
Il diritto dell’Unione non pregiudica la competenza degli Stati membri nel settore dello stato civile delle persone e del riconoscimento giuridico della loro identità di genere, ma devono rispettare il diritto Ue compreso il Rgpd con interpretazione orientata alla luce della Carta. E, conclude la Cgue, il Regolamento impone a un’autorità nazionale incaricata della tenuta di un registro pubblico di rettificare i dati personali relativi all’identità di genere di una persona fisica qualora tali dati non siano esatti.
Inoltre ai fini dell’esercizio del diritto di rettifica, se la persona può essere tenuta a fornire gli elementi di prova pertinenti e sufficienti che possono ragionevolmente essere richiesti per dimostrare l’inesattezza di detti dati, lo Stato membro non può in alcun caso subordinare l’esercizio del diritto di rettifica alla presentazione di prove di un trattamento chirurgico di riassegnazione sessuale. Si tratterebbe di un prerequisito per ottenere la rettifica che risulta lesivo del diritto all’integrità della persona e di quello al rispetto della vita privata, e che soprattutto la Cgue giudica né necessario né proporzionato al fine di garantire l’affidabilità e la coerenza di un registro pubblico. Nel caso specifico è da giudicare sufficiente il certificato medico ginecologico, compresa la precedente psicodiagnosi, come elemento di prova pertinente e sufficiente a sostenere l’inesattezza del dato di cui è richiesta la modifica dall’interessato.