Lavoro

Almaviva Contact, legittima la chiusura delle sedi di Roma e Napoli

Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenze nn. 12040-12044 depositate oggi

di Francesco Machina Grifeo

Con cinque sentenze depositate oggi (12040-12044), la Sezione lavoro della Cassazione ha respinto i ricorsi di altrettanti ex dipendenti di "Almaviva Contact" ed ha confermato la legittimità della procedura seguita dall'azienda, e validata da tutte le sigle sindacali (tranne una), che ha portato alla chiusura delle sedi di Roma (Divisione 1 e 2), che occupava 1.666 persone, e di Napoli con 845 dipendenti.

Per la Suprema corte, l'azienda ha infatti adeguatamente motivato sull'impossibilità di estendere la comparazione, ai fini del licenziamento, al personale impiegato presso le altre unità produttive rimaste in piedi (Milano, Palermo, Catania e Rende). Vi ostavano sia la distanza geografica, superiore ai 500km, che rendeva insostenibile sul piano economico l'applicazione di criteri di scelta a tutto l'organico aziendale, eventualità che, fra l'altro, avrebbe compromesso il regolare svolgimento dei servizi; sia la "specializzazione" di ciascun sito produttivo che rendeva infungibili le risorse preparate per dare risposta ad uno specifico committente (Eni e Trenitalia). Sarebbe dunque serviti interventi formativi, organizzativi e logistici incompatibili però con la situazione economica della società.

Inoltre, osserva la Corte, l'esigenza formativa di ogni lavoratore, da una parte, comporta "un costo indubbio per l'azienda", dall'altra, si traduce nell'"acquisizione di un bagaglio di conoscenze e di esperienze nuovo, che ne diversifica e incrementa la professionalità, così rendendolo idoneo a mansioni che non sono più omogenee alle precedenti svolte". "Sicché, l'equivalenza delle mansioni, tale da configurare un mero passaggio indifferenziato tra lavoratori su diverse commesse, neppure risponde a un dato di realtà". Né, prosegue, la comparazione poteva estendersi ai dipendenti addetti all'outbound vista la diversità delle mansioni.

Del resto, prosegue il ragionamento, di fronte ad una situazione, comunicata in modo esplicito ed esauriente alle organizzazioni sindacali e con le medesime negoziata, talmente grave da pregiudicare la stessa sostenibilità dell'attività d'impresa e quindi da comportarne la cessazione, qualora diversamente affrontata, "risulta inammissibile ogni censura intesa ad investire l'autorità giudiziaria di un'indagine sulla presenza di "effettive" esigenze di riduzione o trasformazione dell'attività produttiva (né tanto meno di ragioni per una diversa allocazione delle commesse nell'ambito della propria organizzazione territoriale), senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e di un'adozione discriminatoria dei lavoratori delle procedure: ciò davvero impingendo direttamente sulla libertà di iniziativa di impresa, garantita dall'art. 41 Costituzione".

È dunque legittimo, conclude la decisione, il criterio adottato, pur se diverso da quello operante sull'intero complesso aziendale, e tarato sulle esigenze tecnico-produttivee e organizzative, perché rispondente a requisiti di obiettività e razionalità.

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