Penale

Applicazione della recidiva, il giudice deve verificare l'accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità

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di Giuseppe Amato

È compito del giudice, quando la contestazione concerna una delle ipotesi di recidiva contemplate dall'articolo 99 del Cp, quello di verificare in concreto se la reiterazione dell'illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto, secondo quanto precisato dalla relativa giurisprudenza costituzionale e di legittimità, della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell'eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali. Ciò perché, spiega la Cassazione con la sentenza 44854/2019, per l'applicazione della recidiva il giudice deve dare conto del concreto rilievo della ricaduta sotto il profilo sintomatico di una più accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità del reo.

La sentenza è in linea con i principi espressi dalle sezioni Unite, nella sentenza 24 febbraio 2011, Proc. gen. App. Genova in proc. Indelicato, laddove, in parte motiva, nel ricostruirsi l'istituto, si è affermato che per ritenere e applicare la recidiva il giudice deve motivatamente spiegare, con riguardo alla nuova azione costituente reato, la sua idoneità a manifestare una più accentuata colpevolezza e una maggiore capacità a delinquere, in relazione alla natura ed ai tempi di commissione dei precedenti, così da giustificare l'aumento di pena. Piuttosto, va ulteriormente precisato che la recidiva deve ritenersi "applicata" dal giudice non solo quando viene attivato il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando se ne tragga, un altro degli effetti che le sono propri e cioè quello di paralizzare un'attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena irroganda per il reato: la recidiva, cioè, deve ritenersi "applicata" anche quando il giudice la ritenga equivalente alle riconosciute circostanze attenuanti; mentre deve ritenersi "esclusa" quando le attenuanti siano riconosciute con giudizio di prevalenza (cfr. sezioni Unite, 18 giugno 1991, Grassi).

Da ciò derivando la conseguenza che, se la recidiva, pur contestata, è esclusa dal giudice, non solo non dà luogo all'aggravamento della pena, ma non produce neanche gli ulteriori effetti commisurativi della sanzione costituiti dal divieto del giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti, di cui all'articolo 69, comma 4, del Cp, dal limite minimo di aumento della pena per il cumulo formale di cui all'articolo 81, comma 4, dello stesso codice, dall'inibizione all'accesso al cosiddetto "patteggiamento allargato" e alla relativa riduzione premiale di cui all'articolo 444, comma 1-bis del Cpp; effetti che si determinano integralmente qualora, invece, la recidiva stessa non sia stata esclusa, per essere stata ritenuta sintomo di maggiore colpevolezza e pericolosità. (cfr. sezioni Unite, 27 maggio 2010, Calibè).

Cassazione – Sezione II penale – Sentenza 5 novembre 2019 n. 44854

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