Civile

Associazioni sindacali: esclusa la legittimazione attiva a impugnare le delibere assembleari

La Prima sezione della Suprema corte con la decisione n. 16396 enuncia un principio inedito

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di Mario Finocchiaro

L’articolo 23 del Cc non annovera tra i soggetti legittimati all'impugnazione di una delibera assembleare l'associazione dalla quale tale deliberazione promana, attribuendo tale norma la legittimazione, oltre che a qualunque associato, agli organi dell'ente stesso e al pubblico ministero. Ciò perché l'associazione è legittimata passiva nel giudizio di impugnazione, proprio perché da essa promana la manifestazione di volontà che è oggetto dell'impugnazione, e sarebbe quindi inammissibile attribuirle la legittimazione a insorgere giudizialmente contro la sua stessa volontà. Lo hanno affermato i giudici della Prima sezione della Cassazione con la  sentenza 10 giugno 2021 n. 16396 (Presidente De Chiara; Relatore Tricomi);

 

La novità della decisione della Suprema corte

Per prima cosa dobbiamo evidenziare che non risultano precedenti esattamente in termini.

In un’ottica diversa, rispetto a quella che pare guidare la pronunzia in commento, comunque, cfr., nel senso che qualora un'associazione o Confederazione sindacale di livello più elevato venga costituita da associazioni minori, che ne divengano soci (ed eventualmente facciano acquisire ai propri aderenti la contemporanea qualità di soci anche della formazione maggiore), si deve riconoscere a detta associazione di livello superiore, in difetto di contraria previsione delle norme statutarie, la legittimazione a insorgere contro il recesso della singola associata, nonché a impugnarne la relativa deliberazione, ai sensi dell'articolo 23 comma 1, del Cc, tenendo conto che tale norma, nell'attribuire il potere d'impugnazione agli organi dell'ente, si riferisce non solo agli organi deputati all'amministrazione ed alla rappresentanza esterna, ma include tutti quelli muniti di compiti direttivi e di controllo per la realizzazione degli scopi comuni, Cassazione, sentenza 10 aprile 1990, n. 2983, in Giustizia civile, 1991, I, p. 3067, con nota di Orsenigo L., L'impugnativa del pubblico ministero ex art. 23 cod. civ”, e, in “Nuova giurisprudenza civile commentata”, 1991, I, p. 6, con nota di Basile M.,“Le federazioni sindacali tra controlli pubblici e poteri delle confederazioni di appartenenza”.

Ricordata in motivazione, nella pronunzia in rassegna, nel senso che l'articolo 2377 del Cc (anche nel testo anteriore alle modifiche introdotte con il decreto legislativo n. 6 del 2003) non annovera tra i soggetti legittimati all'impugnazione di una delibera assembleare la società dalla quale tale deliberazione promana, attribuendo tale norma la legittimazione, oltre che ai soci assenti o dissenzienti, agli amministratori o ai sindaci della società stessa. La società è legittimata passiva nel giudizio di impugnazione, proprio perché da essa promana la manifestazione di volontà che è oggetto dell'impugnazione, e sarebbe quindi inammissibile attribuirle la legittimazione ad insorgere giudizialmente contro la sua stessa volontà, Cassazione, sentenza 5 ottobre 2012, n. 17060, resa in una fattispecie in cui la società aveva convenuto in giudizio il socio titolare di una quota pari al 50% del capitale sociale, chiedendo accertarsi l'irrilevanza del voto del medesimo ai fini del raggiungimento del quorum deliberativo, in quanto espresso in conflitto d'interessi, oltre alla condanna al risarcimento del danno.

Per utili riferimenti, nel senso che qualora la deliberazione dell'assemblea, o altro organo collegiale di un'associazione non riconosciuta, sia invalida, come nel caso in cui sia stata adottata con il concorso di un soggetto estraneo (nella specie, delegato di un componente, sfornito del potere di rappresentanza), al medesimo organo deve essere riconosciuto il potere di rimuovere con successiva decisione detta invalida deliberazione, tenendo conto che l'articolo 2377 del Cc, nel prevedere tale possibilità per le società, è espressione di una regola generale applicabile anche alle associazioni, e l'esercizio di detto potere, ricollegandosi a un vizio originario del precedente atto, non trova ostacolo in eventuali diritti acquisiti dagli associati o dai terzi in sede di esecuzione dell'atto stesso (come si verifica invece nella diversa ipotesi della modifica o revoca in senso stretto di una pregressa deliberazione), Cassazione, sentenza 21 ottobre 1987, n. 7754, in Rivista di diritto commerciale, 1988, II, p. 417, con nota di Chiomenti F., L'annullamento delle proprie deliberazioni invalide da parte degli enti collettivi nel pensiero della cassazione”.

In termini generali, in tema di impugnazione di delibere di associazioni, si è affermato, tra l’altro:

- dal combinato disposto degli articoli 23, comma 1, e 24, comma 3, del Cc, dettati in tema di associazioni riconosciute e applicabili anche alle associazioni non riconosciute, si evince che i vizi delle delibere assembleari, si traducano essi in ragioni di nullità ovvero di annullabilità, possono essere fatti valere con azione giudiziaria, non soggetta a termini di decadenza, da qualunque associato, oltre che dagli organi dell'ente e dal Pm, solo con riguardo alle decisioni che abbiano contenuto diverso dall'esclusione del singolo associato, mentre, per queste ultime, l'azione medesima è esperibile esclusivamente dall'interessato, nel termine di decadenza di sei mesi dalla loro notificazione ovvero dalla conoscenza dell'esclusione, Cassazione, sentenza 10 aprile 2014, n. 8456;

- le disposizioni sull'annullamento e sulla sospensione delle deliberazioni delle associazioni riconosciute (articolo 23 del Cc) - applicabili in via analogica alle delibere assembleari delle associazioni non riconosciute - non riguardano le delibere che, per vizi talmente gravi da privare l'atto dei requisiti minimi essenziali (come nell'ipotesi in cui siano state adottate con una maggioranza di voti insufficiente rispetto a quella prevista dalla legge o dallo statuto), siano affette da radicale nullità od inesistenza, denunciabile, in ogni tempo, da qualsiasi interessato, Cassazione, sentenza 4 febbraio 1993, n. 1408, in “Rivista del notariato”, 1993, II, p. 1221;

- la legittimazione a impugnare le deliberazioni assembleari di organismi con struttura associativa è subordinata alla titolarità della qualità di socio, attuale o almeno sussistente all'epoca della deliberazione stessa, sempre che, in tale ultimo caso, dall'ex socio si faccia valere in giudizio un diritto attuale che risulti leso dall'atto impugnato, condizione, questa, che manca quando a motivo dell'impugnazione si deduca la contrarietà dell'atto medesimo alla legge o allo statuto, in vista dell'elezione a cariche sociali che presuppongono essi stessi l'attualità della qualità di socio, senza che possa rilevare il successivo riacquisto della qualità di socio, attesa la sua efficacia solo ex nunc, che comporta la legittimazione ad impugnare gli atti dell'associazione successivi a quel momento ma non quelli anteriori, per cui la legittimazione è venuta meno, Cassazione, sentenza 26 gennaio 1993, n, 952;

- il potere d'impugnativa del pubblico ministero, con riguardo alle deliberazioni dell'assemblea di associazione riconosciuta, ai sensi dell'articolo 23, comma 1, del Cc, e, correlativamente, la sua qualità di parte necessaria nelle controversie da altri instaurate per l'annullamento di dette deliberazioni, devono essere esclusi nel caso delle associazioni non riconosciute, quali i sindacati (od i loro raggruppamenti), in considerazione del carattere speciale dell'indicata disposizione e del suo ricollegarsi all'assoggettamento delle associazioni riconosciute ad ingerenza dell'autorità amministrativa, Cassazione, sentenza 10 aprile 1990, n. 2983, cit;

- l'articolo 23 del Cc riserva soltanto agli organi dell'ente, agli associati ed al pubblico ministero l'azione di annullabilità delle delibere assembleari, escludendone la legittimazione per i meri dipendenti dell'ente. Tale disciplina è applicabile, oltre che alle associazioni riconosciute, anche a quelle non riconosciute, Cassazione, sentenza 8 febbraio 1985, in “Notiziario giurisprudenza del lavoro”, 1985, p. 447.

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