Autoriclaggio (non grave), cade il divieto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva
La Consulta, sen. n. 188, ha dichiarato l’illegittimità del divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 648-ter.1, secondo comma, cod. pen. sulla recidiva
Anche per il delitto di “autoriciclaggio”, nella vigenza della normativa del 2014 sulla “Voluntary disclosure”, cade il divieto di prevalenza della circostanza attenuante (nel caso, per essere i proventi frutto di un reato punito con la reclusione inferiore nel massimo a cinque anni) sulla recidiva. Proseguendo lungo un cammino intrapreso da tempo che ha portato a mettere più volte in crisi l’esposto automatismo, la Consulta, sentenza n. 188 depositata oggi, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 69, quarto comma, del Cp , nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’articolo 648-ter.1, secondo comma, cod. pen. (nella versione introdotta dall’articolo 3, comma 3, della legge n. 186 del 2014, e vigente fino alla sua sostituzione a opera dell’articolo 1, comma 1, lettera f, numero 3, del Dlgs n. 195 del 2021) sulla recidiva di cui all’articolo 99, quarto comma, cod. pen.
Il caso era quello di un uomo imputato per tre furti di monili commessi nel 2019, presso tre diverse gioiellerie della medesima città, e del tentato autoriciclaggio dei beni sottratti, che egli avrebbe cercato di vendere, lo stesso giorno, presso un “compro oro”.
Per il giudice rimettente, in relazione al delitto di tentato autoriciclaggio, per la loro “pregnanza”, le circostanze attenuanti di cui agli artticoli 62-bis e 648-ter.1, secondo comma, meriterebbero di essere ritenute prevalenti, rispetto alla recidiva reiterata specifica. Ciò per la “tipologia e la modesta gravità in concreto dei reati presupposto e per la situazione di disagio in cui viveva l’imputato e il percorso successivamente intrapreso”. Una operazione però preclusa dall’articolo 69, quarto comma, cod. pen..
Per prima cosa, la Corte afferma che il rimettente è correttamente partito dal presupposto che l’articolo 648-ter.1, secondo comma, cod. pen. costituisca circostanza attenuante a effetto speciale, anziché fattispecie autonoma di reato (“qualificazione, quest’ultima, che priverebbe di rilevanza le questioni, rendendo in radice inapplicabile nel giudizio a quo il censurato art. 69, quarto comma, cod. pen.”).
Successivamente, sempre a ragione, afferma di ritenere non applicabile nel giudizio a quo il nuovo testo dell’articolo 648-ter.1, terzo comma, cod. pen., (Autoriciclaggio) che – nella formulazione novellata dall’articolo 1, comma 1, lettera f), numero 3), del Dlgs n. 195 del 2021 – stabilisce che «[l]a pena è diminuita se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni». Giustamente, argomenta la decisione, il giudice a quo rileva che tale disposizione, stabilendo una diminuzione di pena inferiore a quella prevista al momento del fatto dall’articolo 648-ter.1, secondo comma, cod. pen. nella versione allora vigente, è più sfavorevole per l’imputato, e pertanto risulta a lui inapplicabile ai sensi dell’articolo 2, quarto comma, cod. pen.
La Consulta ricorda poi di avere in numerose precedenti occasioni già dichiarato illegittimo l’articolo 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza di altrettante circostanze attenuanti sulla recidiva di cui all’articolo 99, quarto comma, cod. pen. In particolare, prosegue, nella recente sentenza n. 94 del 2023 sono sinteticamente illustrate le varie rationes decidendi sottese alle sentenze anteriori, riconducibili peraltro all’esigenza di mantenere «un conveniente rapporto di equilibrio tra la gravità (oggettiva e soggettiva) del singolo fatto di reato e la severità della risposta sanzionatoria, evitando l’“abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato” creata dall’art. 69, quarto comma, cod. pen.».
Tale criterio generale, continua la Corte, “non può non condurre anche in questo caso alla dichiarazione di illegittimità costituzionale auspicata dal rimettente”. Prevedendo per l’autoriciclaggio una pena dimezzata, tanto nel massimo quanto nel minimo, allorché il delitto presupposto sia di minore gravità – segnatamente quando esso sia punito con pena inferiore a cinque anni di reclusione –, il legislatore ha inteso “differenziare nettamente il disvalore oggettivo di questa ipotesi rispetto alla fattispecie base, la quale è peraltro caratterizzata da un quadro sanzionatorio di notevole severità, calibrato su fenomeni criminosi ben più gravi – anche per la loro dimensione offensiva del sistema economico, imprenditoriale e finanziario – rispetto a condotte come quelle oggetto del procedimento principale”.
Allorché però il delitto risulti aggravato dalla recidiva reiterata – situazione assai frequente allorché il reato presupposto sia un furto –, l’intento legislativo viene frustrato dalla norma censurata, che vincola il giudice all’irrogazione di una pena non inferiore al minimo previsto per la fattispecie base di autoriciclaggio.
Ciò produce anzitutto in una violazione del canone della proporzionalità della pena fondato sugli articoli 3 e 27, terzo comma, Cost.. Ne deriva altresì un vulnus al principio di offensività di cui all’articolo 25, secondo comma, Cost., il quale esige che la pena sia sempre essenzialmente concepita come risposta a un singolo “fatto” di reato, e non sia invece utilizzata “come misura primariamente volta al controllo della pericolosità sociale del suo autore, rivelata dalle sue qualità personali. Il che accade, per l’appunto, per effetto della norma ora censurata, da cui discende addirittura il raddoppio della pena minima, a parità di disvalore oggettivo del fatto, in considerazione dei soli precedenti penali dell’autore”.