Professione e Mercato

Avvocati, il compenso sproporzionato è illecito deontologico anche se c'è il consenso del cliente

Lo ha stabilito il Consiglio nazionale forense, con la sentenza n. 66/2022, respingendo il ricorso del legale contro la sospensione dalla professione disposta dal Consiglio di disciplina

di Francesco Machina Grifeo

La percezione di compensi sproporzionati rispetto all'attività difensiva effettivamente espletata (articolo 29 cdf) costituisce un illecito disciplinare di carattere istantaneo, per il quale il dies a quo del termine prescrizionale dell'azione disciplinare va individuato nel momento dell'avvenuto pagamento dei compensi spropositati. Lo ha stabilito il Consiglio nazionale forense, con la sentenza n. 66/2022, respingendo il ricorso del legale contro la sospensione dalla professione disposta dal Consiglio di disciplina (anche per altre ragioni, omessa restituzione di somme ricevute in ragione del mandato difensivo e omessa fatturazione dei compensi percepiti).

Per il Cnf, infatti, nonostante (diversamente da quanto ritenuto dal C.D.D. di Napoli) agli atti del procedimento disciplinare vi fosse la prova che l'imprenditore e il legale incaricato di proporre il concordato fallimentare avessero concordato la possibilità che il secondo trattenesse, dalle somme ricevute in ragione del mandato, 20.000,00 euro a titolo di competenze professionali per l'attività svolta nel loro interesse, ciò non è sufficiente a scriminarne la condotta.

A prescindere dall'accordo intervenuto tra le parti, si legge nella decisione, "la determinazione in tal misura del compenso professionale deve ritenersi sproporzionata rispetto all'attività difensiva effettivamente svolta dall'avvocato ricorrente". Dagli atti del procedimento disciplinare infatti si evince come il legale, da un lato, abbia provveduto a recuperare, in via stragiudiziale, dei crediti vantati dalla società amministrata, per la somma complessiva di 81.424,91, euro e, dall'altro lato, a depositare un'istanza di concordato fallimentare, peraltro "non sorretta da alcuna garanzia e, pertanto, destinata ab origine ad essere dichiarata improcedibile".

Né, prosegue la sentenza, per dimostrare l'adeguatezza del compenso così come concordato dalle parti, può farsi riferimento, come sostenuto dal ricorrente, all'attività svolta dall'incolpato "nell'ambito di altre vicende giudiziarie", giacché l'esistenza di detta ulteriore attività difensiva non è stata in alcun modo documentata.

Deve pertanto ritenersi provato che l'incolpato abbia posto in essere una condotta deontologicamente rilevante sulla base del seguente principio: "L'avvocato che chieda compensi eccessivi e anche sproporzionati rispetto alla natura e alla quantità delle prestazioni svolte pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante perché lesivo del dovere di correttezza e probità a cui ciascun professionista è tenuto", con l'ulteriore precisazione che "il divieto di richiedere compensi manifestamente sproporzionati prescinde dal fatto che il cliente accetti di provvedere al relativo pagamento" (Cnf, sentenza n. 146 del 6 dicembre 2019).

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