Lavoro

Avvocati: verso l'addio al requisito dei cinque affari l'anno

Dopo il Cds, anche la Commissione giustizia del Senato ha dato parere favorevole allo Schema di decreto

di Francesco Machina Grifeo

Si va verso l'eliminazione dell'obbligo di trattare almeno cinque affari nel corso dell'anno per dimostrare la continuità della professione di avvocato. La Commissione giustizia del Senato ha infatti dato parere favorevole allo Schema di decreto che modifica il Dm giustizia 25 febbraio 2016, n. 47 (attuativo della legge professionale) che detta disposizioni per l'accertamento dell'esercizio della professione forense.

La modifica si è resa necessaria dopo l'apertura di una procedura di infrazione da parte della Commissione europea (n. 2018/2175) secondo cui una simile prescrizione limita in modo eccessivo la possibilità per l'avvocato di dimostrare l'effettivo esercizio della professione. Inoltre, sempre secondo l'Ue, laddove gli affari (di natura giudiziale o stragiudiziale) trattati in altri Stati membri non fossero tenuti in considerazione ai fini dell'adempimento della prescrizione, quest'ultima potrebbe avere un carattere discriminatorio nei confronti degli avvocati che esercitano la loro professione (anche o prevalentemente) all'estero.

Lo schema di regolamento ministeriale A.G. 261 si compone di due soli articoli. L'articolo 1 modifica l'art. 2, comma 2, del D.M. n. 47 del 2016 espungendo dai requisiti che dimostrano l'esercizio della professione forense "in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente", la trattazione di "almeno cinque affari per ciascun anno, anche se l'incarico professionale è stato conferito da altro professionista" (lett. c). L'articolo 2 reca la clausola di invarianza finanziaria.

A nulla infatti erano servite le rassicurazioni offerte dal Governo italiano, relative a una interpretazione estensiva del requisito della trattazione dei 5 affari annui, tale da includere non solo le attività extragiurisdizionali, ma anche quelle svolte all'estero. La Commissione non le ha ritenute sufficienti, in quanto così com'è la norma nazionale viola il principio di proporzionalità tra la prescrizione imposta (i 5 affari) e l'obiettivo perseguito (l'effettivo esercizio della professione), ponendosi in contrasto con una serie di disposizioni comunitarie (l'art. 49 del Tfue sulla libertà di stabilimento; l'art. 59, par. 3, della direttiva 2005/36/CE; l'art. 15, par. 3, in combinato disposto con l'art. 15, par.2, lettera a), della direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno).

Per evitare il ricorso alla Corte di Giustizia, il Ministero della giustizia ha dunque deciso di procedere alla soppressione della lettera c) dell'art. 2 del D.M. n. 47/2016, ritenendo comunque sufficienti ad operare la verifica dell'esercizio professionale effettivo, continuativo, abituale e prevalente, i restanti criteri (dettati dal comma 2 che ha dato attuazione all'art. 21 della L. 247/2012).

E cioè: la titolarità di una partita IVA attiva; l'uso di locali e di almeno un'utenza telefonica destinati allo svolgimento dell'attività professionale (anche in condivisione con altri avvocati); la titolarità di un indirizzo di posta elettronica certificata, comunicato al consiglio dell'Ordine; l'assolvimento dell'obbligo di aggiornamento professionale; la titolarità di una polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile derivante dall'esercizio della professione.

Sullo schema di regolamento ha già espresso parere favorevole il Consiglio di Stato (anche grazie al fatto che col permanere dell'obbligo della formazione continua non viene compromessa la tutela dei destinatari dei servizi). Mentre il Consiglio Nazionale Forense si è pronunciato negativamente ribadendo che l'esercizio effettivo e continuativo della professione forense costituisce uno dei principi più significativi della legge n. 247 del 2012, "in quanto misura volta ad assicurare l'interessepubblico al corretto esercizio della professione, e garanzia della qualità della prestazione professionale".

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