Amministrativo

Avvocati dello Stato, legittimo il tetto retributivo per i "compensi professionali"

La Corte costituzionale, sentenza n. 128 depositata oggi, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Consiglio di Stato

di Francesco Machina Grifeo

È legittimo computare i compensi professionali - costituiti dagli onorari e dalle spese di lite liquidati in sentenza a carico delle controparti - corrisposti dalle amministrazioni pubbliche al personale dell'Avvocatura dello Stato ai fini del raggiungimento del tetto retributivo previsto per i dipendenti della PA, e cioè la retribuzione del Primo presidente della Corte di cassazione. Lo ha stabilito la Corte costituzionale, con la sentenza n. 128 depositata oggi, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Consiglio di Stato in relazione all'art. 9, comma 1, del Dl n. 90 del 2014, come convertito, in combinato disposto con l'art. 23-ter, comma 1, del Dln. 201 del 2011, come convertito, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 23, 36 e 53 Cost..

Secondo il giudice rimettente non vi sarebbe «alcuna ragione giustificatrice per sottrarre quelle somme alla loro naturale destinazione, che è quella dell'incentivazione pr emiale» anche considerato che tali somme non sono a carico dello Stato ma della parte soccombente.

Per prima cosa la Consulta esclude che, come pure contestato dal giudice a quo, che la previsione di un tetto retributivo costituisca «un prelievo di natura tributaria», ovvero una prestazione patrimoniale imposta (Cost. 27/2022). Successivamente la Consulta boccia la tesi secondo cui le spese di lite siano riscosse dall'Avvocatura dello Stato «non per conto dell'amministrazione, bensì nella sua qualità di distrattaria ex lege» e che siano vincolate «in favore delle persone degli avvocati e dei procuratori dello Stato».

Va infatti osservato, prosegue la decisione, che la condanna al pagamento delle spese di lite è fatta dal «giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui» a favore della parte (art. 91, primo comma, cod. proc. civ.) – che è quindi titolare del diritto di credito al relativo pagamento nei confronti della controparte soccombente – e non, salvo il caso di distrazione ex art. 93 cod. proc. civ., del suo difensore. E nella specie, la parte non è l'Avvocatura dello Stato, bensì l'amministrazione pubblica da essa patrocinata, che, se vittoriosa, ha diritto al rimborso delle spese legali nei confronti del soccombente. Una parte di queste (il 75 per cento) è poi ripartita tra gli avvocati e i procuratori dello Stato, come «componente retributiva aggiuntiva legata agli emolumenti per il "riscosso"» (sentenza n. 236 del 2017). Questi emolumenti, quindi, sono indubbiamente a carico delle finanze pubbliche. E tale incidenza è dimostrata dalla circostanza che le somme confluiscono sul capitolo 3518 capo X art. 1 del bilancio dello Stato, «per essere riassegnate, con decreti del Ministro del tesoro». Ciò comporta che debbano essere considerate risorse pubbliche e che, una volta erogate, integrino una spesa a carico delle finanze pubbliche.

Riguardo, infine, la supposta incoerenza del "tetto stipendiale" con la natura premiale dei compensi, il Collegio afferma che "la computabilità, ai fini del raggiungimento del tetto retributivo, anche dei compensi professionali costituenti la parte variabile del trattamento economico degli avvocati e dei procuratori dello Stato non contraddice la loro dedotta natura premiale sul piano normativo. Questa riguarda, infatti, i criteri di distribuzione degli stessi, sulla base del rendimento individuale, mentre la fissazione di un limite massimo alle retribuzioni pubbliche si pone quale misura di contenimento della spesa pubblica che colpisce tutte le voci retributive, anche quelle variabili".

Del resto, la Corte ha già avuto modo di escludere che le limitazioni e decurtazioni imposte siano arbitrarie e non proporzionate, trovando «una incontroversa ratio nelle […] esigenze di bilancio e di contenimento della spesa pubblica» (sentenza n. 236 del 2017). Ciò posto, è «coerente sul piano sistematico che il "tetto" colpisca le categorie professionali che godono dei trattamenti economici più elevati» (sentenza n. 27 del 2022), avendo l'intervento normativo denunciato lo scopo di porre un limite proprio ai redditi più alti «salvaguardando comunque l'adeguatezza professionale e retributiva della soglia contemplata» (sentenza n. 124 del 2017).

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