Casi pratici

Caparra confirmatoria: recesso o risoluzione?

L'istituto della caparra confirmatoria

di Laura Biarella

la QUESTIONE
Con riguardo a un contratto preliminare di vendita, il promissario alienante convenuto dal promissario acquirente per la risoluzione del contratto sul presupposto del proprio inadempimento, può chiedere, in via riconvenzionale, in primo grado la risoluzione e il risarcimento del danno, e in secondo grado, non avendo provato il danno, il recesso dal contratto e la ritenzione della caparra? Ove il contraente non inadempiente abbia agito per la risoluzione ed il risarcimento del danno, costituisce domanda nuova, in appello, quella volta ad ottenere la declaratoria dell'intervenuto recesso con ritenzione della caparra o pagamento del doppio? Quali sono i rapporti tra recesso e risoluzione, con riferimento all'operatività della caparra confirmatoria?



La caparra è un contratto accessorio che si perfeziona con la consegna, che una parte fa all'altra, di una somma di denaro o una quantità di altre cose fungibili a garanzia dell'adempimento della prestazione oggetto del contratto principale (che deve essere necessariamente un contratto a prestazioni corrispettive).
Alla caparra si riconosce, nella fase patologica del rapporto cui accede, la funzione giuridica tipica di meccanismo preventivo di tutela, sub specie di liquidazione anticipata e forfetaria del danno da inadempimento, ovvero, nella dimensione fisiologica della vicenda sottostante, la funzione di anticipo del pagamento per l'ipotesi opposta di corretto adempimento.
Una risalente dottrina e giurisprudenza attribuiva alla caparra la funzione di prova dell'esistenza del contratto principale.
Altra parte della dottrina, valorizzandone la funzione risarcitoria, avvicinava l'istituto della caparra confirmatoria alla c.d. clausola penale; in realtà, a parte il comune scopo di indurre all'adempimento, restano due istituti giuridici ben distinti quanto alla loro applicazione.
Altra parte ancora la accostava alla caparra penitenziale che però, pur implicando anch'essa la ritenzione o la restituzione del doppio della somma versata, ha una diversa natura, in quanto rappresenta il corrispettivo per il recesso ad nutum da un contratto.
V'è, ancora, chi ha ravvisato, nella caparra confirmatoria, due funzioni, quella propriamente risarcitoria e quella sanzionatoria.
La ricostruzione che prevale, sia in dottrina che in giurisprudenza, è comunque quella che la configura, come detto, in termini di liquidazione anticipata e convenzionale del danno da inadempimento; si ritiene comunemente che essa, intervenendo come una sorta di meccanismo di autotutela, consente lo scioglimento del vincolo negoziale senza necessità di adire il giudice.
Alcuni autori e alcune pronunce giurisprudenziali l'hanno delineata in termini di minum risarcibile, il che giustificherebbe l'ulteriore considerazione secondo cui potrebbe conseguentemente essere soggetta a una compensazione con il credito risarcitorio, se provato; un'altra parte della giurisprudenza nega che la caparra abbia tale ulteriore natura, riconoscendole, piuttosto, la duplice funzione di coazione indiretta all'adempimento e, alternativamente e a seconda che non si dia o che si dia luogo all'adempimento, di liquidazione anticipata e forfetaria del danno ovvero di anticipo sull'importo del pagamento dovuto.
Quel che è pacifico è che la caparra risulta del tutto svincolata dalla dimostrazione dell'effettiva esistenza di un danno e che, pertanto, ha proprio lo scopo di facilitare la composizione 'bonaria' delle eventuali controversie che possano sorgere nel caso di inadempimento di una delle parti.


I due rimedi, risoluzione e recesso, e la loro interazione
L'art. 1385 c.c., nell'ipotesi di inadempimento, riconosce la facoltà, a favore della parte adempiente, alternativamente, di esercitare il diritto di recesso - con possibilità di ritenere la caparra o di esigere il doppio di quella versata (comma 2) - ovvero di domandare la risoluzione - chiedendo il risarcimento del danno (comma 3).
Recesso e risoluzione hanno la stessa natura e si fondano su un presupposto comune - il grave inadempimento imputabile a una delle parti - ma hanno ratio differente: il recesso ha come scopo la completa caducazione dell'accordo negoziale senza dover ricorrere a una pronuncia giudiziale; la risoluzione mira a ottenere, oltre alla cessazione degli effetti, il ristoro del danno conseguente al mancato adempimento della prestazione e del programma contrattuale prefissato.
È proprio in relazione a tale questione che sono sorte le maggiori incertezze, in quanto, a fronte di una copiosa giurisprudenza che già sosteneva l'assoluta non fungibilità dell'uno e dell'altro rimedio e, conseguentemente, l'inutilizzabilità di essi nell'ambito dello stesso procedimento, vi è un altrettanto considerevole filone interpretativo secondo il quale la domanda di recesso e la domanda di risoluzione sono entrambe basate sul presupposto dell'inadempimento e su una conseguente declaratoria di scioglimento del vincolo contrattuale, sicché i due rimedi, sostanzialmente analoghi, differirebbero fondamentalmente in relazione al carico probatorio e alla misura del conseguente ristoro patrimoniale conseguibile.
Questo stesso indirizzo fa rientrare la richiesta di ritenzione della caparra (o di restituzione del doppio della stessa) nell'ambito di operatività di una più generale istanza volta a ottenere il risarcimento del danno.
A parere della scrivente, da tali ultime impostazioni emergono delle incongruità evidenti. Pur essendo in parte condivisibili le affermazioni secondo cui, da un punto di vista processuale, vi è una certa coincidenza in relazione alla causa petendi - in ambedue i rimedi esperibili, la pretesa che si fa valere attiene all'inadempimento di uno dei contraenti - non sembra però potersi rinvenire nell'ordinamento l'effettiva intenzione del Legislatore di accordare una posizione di così evidente favor alla parte non inadempiente.
Costui, a ben vedere, se si seguisse tale impostazione ricostruttiva, avrebbe non solo la facoltà di decidere in ordine al modo in cui far valere le proprie ragioni, ma anche l'ulteriore facoltà di apportare un "ripensamento" alla propria scelta nel caso in cui essa si fosse dimostrata successivamente economicamente meno conveniente, con - a quel punto - un ingiustificato aggravio della posizione della controparte.
La scelta tra certezza della somma prefissata e incertezza connessa alla prova del danno
A ben vedere, optare per la ritenzione o la restituzione del doppio della caparra, piuttosto che decidere di agire per il risarcimento integrale del danno, costituisce una scelta di opportunità, che il Legislatore lascia alla parte non inadempiente la quale, infatti, nell'un caso - ritenzione della caparra o richiesta del doppio della stessa - si "accontenta" di un ristoro patrimoniale che potrebbe anche essere inferiore rispetto al pregiudizio subìto ma che non è soggetto ai rischi connaturali all'onere di dover provare l'an e il quantum del danno sofferto e che comporta un'attività processuale sicuramente meno impegnativa e lunga; nell'altro caso - risarcimento del danno - decide di assumersi il rischio di provare il danno, spinto dal fine di riceverne il completo ristoro, accettando anche l'eventualità di non riuscirvi.
In poche parole, chi agisce per la ritenzione della caparra, e dunque il recesso, sceglie la certezza di ricevere un qualche tipo di reintegrazione, seppur magari inferiore in relazione al pregiudizio concretamente sofferto; chi agisce per il risarcimento integrale, invece, rinuncia al recupero sicuro di una data somma prefissata e sceglie l'incertezza che è naturalmente connessa alla prova del danno secondo le regole ordinarie (con l'imprescindibile conseguenza che può pretendersi il risarcimento solo se si riesca a dimostrarlo).
Se, ogniqualvolta non si sia riusciti a fornire la prova del danno, si consentisse di convertire quella originaria richiesta - con tutto ciò che essa giuridicamente implica e comporta, come detto - nella ridotta pretesa di ritenzione della somma certa costituita dalla caparra, si finirebbe col contraddire la ratio di tale ultimo istituto, il quale non avrebbe più ragione di esistere. Ma non solo. Finirebbe per perdere di significato (o, se si preferisce, risulterebbe violato) lo stesso comma 3 dell'art. 1385 c.c., laddove prescrive espressamente che la prova del pregiudizio sofferto, qualora si agisca per la risoluzione del contratto e il risarcimento, è assoggettata alle ordinarie regole in materia. Diversamente ragionando ci si spingerebbe fino a legittimare, del tutto ingiustificatamente, una di quelle situazioni che la moderna dottrina e giurisprudenza definiscono di "abuso del diritto".


L'alternatività dei due rimedi
Sembra più corretta e preferibile l'interpretazione che nega la possibilità di cumulare i due rimedi nel medesimo giudizio attraverso, ad esempio, una modifica successiva della domanda, in particolare nel caso in cui non si sia raggiunta la prova del danno - che, si ribadisce, soggiace alle ordinarie regole probatorie con riferimento all'an e al quantum - ai fini della richiesta di risoluzione e di risarcimento e allora si "ripieghi" sul recesso e la caparra.
Il recesso previsto dal secondo comma dell'art. 1385 c.c., in sostanza, appare come una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto che, con l'istituto generale della risoluzione, ha in comune i presupposti - un inadempimento di non scarsa importanza e imputabile - e il risultato - lo scioglimento del vincolo negoziale e la caducazione ex tunc dei suoi effetti.
Pertanto, se si agisce per la risoluzione non si può poi chiedere il recesso, così come non è possibile modificare la domanda di risoluzione in richiesta di adempimento.
E, ancora, se si agisce per la risoluzione e ad agire è colui che ha ricevuto la caparra, qualora intervenga la declaratoria di risoluzione ed egli non sia riuscito a provare il pregiudizio subìto, dovrà restituire la caparra stessa, essendo venuta a cadere, con il negozio, la ragione giustificatrice - la causa - di tale spostamento patrimoniale.
I rapporti tra azione di risarcimento e domanda di ritenzione della caparra
Partendo da tale impostazione, ossia, ritenuto di inquadrare giuridicamente il recesso come forma di risoluzione stragiudiziale del contratto, il vero aspetto problematico attiene non tanto al rapporto tra azione di recesso e azione di risoluzione, bensì, piuttosto, al rapporto tra l'azione di risarcimento ordinaria (richiamata dal terzo comma dell'art. 1385 c.c.) e la richiesta di ritenzione (o di restituzione del doppio) della caparra (ai sensi del secondo comma dell'art. 1385 c.c.).
È data facoltà alla parte non inadempiente di decidere quale delle due strade percorrere, ma l'opzione dell'una preclude la successiva scelta dell'altra, essendo esse strutturalmente diverse e non assimilabili.
L'incompatibilità, dunque, non riguarda il rapporto tra recesso e risoluzione (che, appunto, parte della dottrina e della giurisprudenza ritenevano e ritengono di non poter affermare), ma le due azioni restitutorie: l'una - la pretesa dell'integrale risarcimento del danno - ha natura strettamente risarcitoria; l'altra - la domanda di ritenzione della caparra - avrebbe natura "paraindennitaria".
Il diritto alla ritenzione della caparra si basa su una convenzione intervenuta tra le parti; chiedendo il risarcimento integrale del danno, una delle due parti rinuncia a far valere tale convenzione.


Ulteriori profili in tema di rapporto tra risoluzione e recesso
Non vi è una completa uniformità interpretativa nemmeno nel caso in cui si sia in presenza di una risoluzione di diritto collegata a un termine essenziale, a una clausola risolutiva espressa o a una diffida ad adempiere.
Parte della giurisprudenza di legittimità esclude la possibilità di richiedere successivamente il recesso; altra parte invece la ammette.
In estrema sintesi, i fautori della prima impostazione sostengono che l'ordinamento non può consentire di recedere da un contratto già risolto ex lege; ciononostante, riconoscono, in taluni casi, la possibilità di esercitare il diritto di ritenzione della caparra, integrando, tale richiesta, una domanda più ridotta rispetto a quella di risarcimento del danno, con l'ulteriore conseguenza che sarebbe possibile trasformare in appello l'originaria istanza di risarcimento - con riferimento al solo punto che concerne il risarcimento - in richiesta di ritenzione.
Secondo l'orientamento opposto, nel caso in cui non si dia seguito alla risoluzione di diritto, per rinuncia della parte non inadempiente, la stessa potrebbe però legittimamente esercitare il diritto di recesso. Assunto criticato da altra parte della giurisprudenza e dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 553/2009, secondo cui l'effetto risolutorio non è un qualcosa che appartenga alla sfera di volontà e di disponibilità dei contraenti.
Le Sezioni Unite avevano chiarito che, una volta risolto l'accordo negoziale, i due contraenti sono liberati dalle rispettive obbligazioni (tranne, ovviamente, quelle restitutorie), sicché la parte inadempiente non potrà essere destinataria di successive, diverse, domande, quali il recesso o la richiesta di adempimento.
Allo stesso filone appartengono quelle pronunce che riconoscono il diritto di chiedere la ritenzione della caparra, o la restituzione del doppio della stessa, nei casi in cui la parte non inadempiente si sia avvalsa della risoluzione di diritto del contratto ma non abbia richiesto anche il risarcimento del danno.


Domanda nuova in appello
Per quella parte della dottrina e della giurisprudenza che configura i due rimedi previsti dall'art. 1385 c.c. come tra loro fungibili, la richiesta di ritenzione della caparra integrerebbe solamente una domanda risarcitoria per così dire minore, costituendo la caparra medesima una sorta di minimum risarcibile. Pertanto, in considerazione del fatto che "domanda nuova" ai fini dell'applicazione del divieto vigente ex art. 345 c.p.c., come modificato dall'art. 46 della legge 18 giugno 2009, n. 69, e dall'art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, è soltanto quella che determini una trasformazione oggettiva della domanda originale in relazione al petitum e/o alla causa petendi, e che, da un punto di vista processuale, la domanda di recesso viene a delinearsi come domanda solo più limitata e ridotta rispetto a quella di risoluzione, la giurisprudenza di legittimità che ha fatto propria questa interpretazione giunge a consentire la trasformazione della domanda originaria di risoluzione in domanda di recesso in sede di giudizio di appello.
Non sarebbe domanda nuova quella che vede la pretesa risolutoria mutare in richiesta di recesso, poiché tra le due domande non vi sarebbe un'incompatibilità, essendo l'una solo più limitata rispetto all'altra e in essa assorbita.
Anche con riguardo all'ipotesi in cui la parte non inadempiente sia colui che ha versato la caparra, vi è chi ha ritenuto che costui possa esperire l'azione di restituzione del doppio della caparra pur quando abbia già promosso l'azione di risoluzione, ove il danno superi quello preventivamente determinato con la clausola che fissa l'importo della caparra.
Secondo altra impostazione, i due rimedi previsti dall'art. 1385 c.c. non sono cumulabili né fungibili, di talché la domanda di recesso proposta nel grado di appello in sostituzione della originaria domanda di risoluzione non può qualificarsi, rispetto a questa, come una pretesa avente semplicemente un più ristretto oggetto e dunque in essa ricompresa, integrando al contrario una domanda nuova, come tale inammissibile ai sensi dell'art. 345 c.p.c.
La sentenza delle Sezioni Unite del 2009 aveva rifiutata categoricamente la qualificazione della caparra in termini di misura minima del danno risarcibile, rilevando che, se il Legislatore avesse inteso dare all'istituto una tale conformazione, avrebbe allora parlato, al terzo comma dell'art. 1385 c.c., di "risarcibilità del maggior danno", invece che di risarcimento integrale del danno effettivo, come ad esempio fa, in modo chiaro e netto, in relazione alla clausola penale; sottolinea la "disomogeneità genetica" tra ritenzione della caparra e risarcimento del danno.
Su queste basi dogmatiche, accoglie e afferma con convinzione, di conseguenza, la tesi della novità della domanda di recesso proposta in appello in sostituzione dell'originaria domanda di risoluzione del contratto. Non tralascia nemmeno di sottolineare che, altrimenti considerando, si presterebbe il fianco a una ingiustificata possibilità di modificare la strategia processuale assunta, ogni volta che mere ragioni di convenienza economica, e in particolare il risultato non soddisfacente della stessa, spingano a farlo. Ciò peraltro, con un dispendio delle energie processuali che, anche alla luce dei principi costituzionali del giusto processo, non può trovare ingresso nel nostro ordinamento. Analoghe considerazioni valgono nel caso opposto, ovvero non è possibile domandare la risoluzione del contratto dopo aver agito per il recesso.
Più di recente la Corte di Cassazione (Sezione VI-2 Civ., Ordinanza 12 ottobre 2020, n. 21971) in tema di contratti cui acceda la consegna di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, ha chiarito che qualora il contraente non inadempiente abbia agito per la risoluzione (giudiziale o di diritto) ed il risarcimento del danno, costituisce domanda nuova, inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la declaratoria dell'intervenuto recesso con ritenzione della caparra (o pagamento del doppio), avuto riguardo - oltre che alla disomogeneità esistente tra la domanda di risoluzione giudiziale e quella di recesso ed all'irrinunciabilità dell'effetto conseguente alla risoluzione di diritto - all'incompatibilità strutturale e funzionale tra la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento: la funzione della caparra, consistendo in una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l'instaurazione di un giudizio contenzioso, risulterebbe infatti frustrata se alla parte che abbia preferito affrontare gli oneri connessi all'azione risarcitoria per ottenere un ristoro patrimoniale più cospicuo fosse consentito - in contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che vieta qualsiasi forma di abuso processuale - di modificare la propria strategia difensiva, quando i risultati non corrispondano alle sue aspettative. Qualche anno prima (Cassazione, Sez. II Civ., Ordinanza 28 novembre 2017, n. 28383), sempre in materia di contratti cui acceda la consegna di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, lo stesso giudice di legittimità aveva statuito che, ove il contraente non inadempiente abbia agito per la risoluzione e il risarcimento del danno, costituisce domanda nuova, inammissibile in appello, quella volta a ottenere la declaratoria dell'intervenuto recesso con ritenzione della caparra (o pagamento del doppio), avuto riguardo all'incompatibilità strutturale e funzionale tra la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento: la funzione della caparra, consistendo in una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta a evitare l'instaurazione di un giudizio contenzioso, risulterebbe infatti frustrata se alla parte che abbia preferito affrontare gli oneri connessi all'azione risarcitoria per ottenere un ristoro patrimoniale più cospicuo fosse consentito di modificare la propria strategia difensiva, quando i risultati non corrispondano alle sue aspettative. Similmente, il Tribunale di Padova (Sez. II Civ., 7 gennaio 2015, n. 33), aveva già affermato che, nell'ambito dei contratti cui acceda la consegna di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, nel caso in cui il contraente non inadempiente abbia agito per la risoluzione, giudiziale o di diritto, ed il risarcimento del danno, costituisce domanda nuova, inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la declaratoria dell'intervenuto recesso con ritenzione della caparra (o pagamento del doppio), avuto riguardo all'incompatibilità strutturale e funzionale tra la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento. In senso diverso, la Cassazione (Sez. II Civ., 3 novembre 2017, n. 26206) aveva affermato che in tema di contratto preliminare cui acceda il versamento di una caparra confirmatoria, la parte adempiente che si sia avvalsa della facoltà di provocarne la risoluzione tramite diffida ad adempiere, ai sensi dell'art. 1454 c.c., può agire in giudizio esercitando il diritto di recesso di cui all'art. 1385, c. II, c.c. e, in tal caso, ove abbia ricevuto la caparra, ha diritto di ritenerla definitivamente mentre, ove l'abbia versata, vanta il diritto a ricevere la restituzione del doppio di essa, con esclusione del diritto al risarcimento del danno cagionato dall'inadempimento che ha giustificato il recesso.


Considerazioni conclusive
Secondo l'ultimo trend giurisprudenziale (Cassazione Civ., Sez. VI-2, Ordinanza 12 ottobre 2020, n. 21971), in materia di contratti cui acceda la consegna di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, se il contraente non inadempiente abbia agito chiedendo la risoluzione, giudiziale o di diritto, ed il risarcimento del danno, costituisce domanda nuova, non ammissibile in appello, quella volta ad ottenere la declaratoria dell'intervenuto recesso con ritenzione della caparra, ovvero pagamento del doppio, avuto riguardo - oltre che alla disomogeneità esistente tra la domanda di risoluzione giudiziale e quella di recesso ed all'irrinunciabilità dell'effetto conseguente alla risoluzione di diritto - all'incompatibilità strutturale e funzionale tra la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento. Più in dettaglio, la funzione della caparra, consistendo in una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l'instaurazione di un giudizio contenzioso, risulterebbe infatti frustrata se alla parte che abbia preferito affrontare gli oneri connessi all'azione risarcitoria per ottenere un ristoro patrimoniale più cospicuo fosse consentito, in contrasto col principio costituzionale del giusto processo, che vieta qualsiasi forma di abuso processuale, di modificare la propria strategia difensiva, quando i risultati non corrispondano alle sue aspettative.

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