Civile

Cassazione: nuovi documenti nell'appello tributario non sempre ammissibili. La parità di trattamento tra Contribuente e Stato è per Costituzione

È fatto noto che nel processo tributario i c.d. "nuovi documenti" possano essere prodotti nel giudizio di appello; facoltà fatta salva dalla norma di cui all'art. 58 del D.Lgs. 546/92.

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di Angelo Lucarella*


È fatto noto che nel processo tributario i c.d. "nuovi documenti" possano essere prodotti nel giudizio di appello; facoltà fatta salva dalla norma di cui all'art. 58 del D.Lgs. 546/92.

Eppure non sempre è possibile; ciò perché il combinato disposto tra norme del procedimento amministrativo-tributario e disciplina processuale deve pur garantire un bilanciamento tra garanzie costituzionali.

Da una parte l'imparzialità della Pubblica Amministrazione di cui all'art. 97 Cost.; dall'altra parte il Giusto Processo di cui all'art. 111 Cost.

Con la sentenza n. 7649/2020 la Suprema Corte di Cassazione ha spiegato che, soprattutto considerando la dovuta partecipazione del cittadino al procedimento amministrativo nonché la piena trasparenza di quest'ultimo, i documenti processuali nell'appello prodotti, per essere definiti "nuovi", non possono costituire di per sé uno scavalcamento dell'obbligo di allegazione in fase amministrativa ove previsto per legge.

Quanto innanzi sta a significare un chiaro richiamo, anzitutto, a due norme pilastro emanate dal legislatore in favore del cittadino-contribuente: la legge n. 241/1990 (trasparenza degli atti amministrativi) e la legge 212/2000 (c.d. Statuto del contribuente).
Entrambe le menzionate norme dispongono rispettivamente eguale principio, irrinunciabile ed insuperabile, nell'ottica di garantire trasparenza assoluta degli atti del procedimento in termini di correlabilità motivazionale:

- l'art. 3, co. 3, legge n. 241/1990 "Se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell'amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest'ultima deve essere indicato e reso disponibile, a norma della presente legge, anche l'atto cui essa si richiama";
- l'art. 7, co. 1, legge n. 212/2000 "Gli atti dell'amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall'articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all'atto che lo richiama".

Basti pensare che la radice delle due norme appena citate è quasi la stessa (sempre esaminandone il corpo delle singole disposizioni in incipit). Infatti, leggendone i testi, ci si può avvedere di come il legislatore abbia posto espressamente quanto appresso:

- art. 1, co. 1, legge n. 241/1990 "L'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché' dai principi dell'ordinamento comunitario";
- art. 1, co. 1, legge n. 212/2000 "Le disposizioni della presente legge, in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali dell'ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali".

Questa la cornice entro cui ed a cui ogni giudicante, in materia, dovrebbe allineare il metro di esaminazione delle questioni processuali originate dall'opposizione del cittadino-contribuente avverso atti ed attività della Pubblica Amministrazione denunziate come illegittime.

Tanto premesso, passando al concreto del caso oggetto della decisione della Suprema Corte in analisi, quest'ultima, ne ha stadiato ed affermato il mal governo normativo posto in essere dai giudici di merito.

In buona sostanza l'Agenzia delle Entrate ha provveduto solo in appello a depositare atti amministrativi legati all'accertamento in rettifica: si è in ambito di imposta di registro ex DPR 131/1986.

A ragione, quindi, delle motivazioni di ricorso del contribuente la Corte nomofilattica giunge ad accoglierne l'annullamento provvedimentale senza neanche disporne rinvio alla Commissione Regionale: per giunta, specificamente, decidendo il merito della questione contenziosa.

La parte della sentenza che più si presta a farne carpire l'essenza del ragionamento logico-giuridico è, sicuramente, l'espresso richiamo normativo operato.
Balza all'evidenza la violazione del disposto dell'art. 52, co. 2, del DPR n. 131/1986 (comma 2 e 2 bis); è in base al principio di cui all'articolo appena menzionato che deve ricondursi la tardività di deposito giudiziale e relativo inutilizzo perché l'atto amministrativo "deve contenere i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno determinato. Se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all'atto che lo richiama, salvo che quest'ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale. L'accertamento è nullo se non sono osservate le disposizioni di cui al presente comma".

In conclusione l'avviso di accertamento doveva nascere già perfetto in termini di allegazione degli atti a supporto (poi prodotti in secondo grado); la conseguenza derivatane è che la decisione della CTR impugnata è risultata basata su elementi che non potevano essere presi in considerazione perché, in primis, non richiamati e, per l'effetto, non allegati all'avviso di accertamento de quo e nemmeno esposti nelle difese di primo grado.

Tanto in ossequio del principio di parità di trattamento amministravo procedimentale nonché processuale tra le parti come per Costituzione.

* a cura di Angelo Lucarella

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