Casi pratici

Coltivazione di sostanze stupefacenti e offensività

di Serena Gentile


LA QUESTIONE


Come si atteggia il principio di offensività in materia di stupefacenti? La coltivazione di sostanze stupefacenti integra un'ipotesi penalmente rilevante? É punibile la coltivazione domestica?

La materia delle sostanze stupefacenti o psicotrope è contemplata, come è noto, dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, denominato «Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza», più volte oggetto di modifiche ad opera del legislatore e del Giudice delle Leggi. Il corpus legislativo, suddiviso in 12 Titoli, individua le sostanze qualificabili come stupefacenti o psicotrope, raggruppandole e catalogandole secondo criteri tabellari forniti e aggiornati dal Ministero della Salute. Il Titolo VIII è dedicato alla repressione della attività illecite in questo ambito: in via più precipua è contemplata la forma criminosa monosoggettiva all'art. 73, l'ipotesi associativa all'art. 74, nonché eventuali circostanze aggravanti all'art. 80. Qualora le condotte non autorizzate siano destinate all'uso personale della sostanza si configurerà, invece, l'illecito amministrativo di cui all'art. 75 del prefato

Decreto con le relative sanzioni della medesima natura.
Ebbene, la destinazione della sostanza è il profilo che funge da discrimen tra area penalmente lecita ed illecita in cui collocare le variegate condotte osservate dal D.p.r. 309/90 aventi ad oggetto le sostanze droganti. L'argomento, tra l'altro, è da sempre al centro del dibattito politico tra chi sostiene l'apertura a frontiere di maggiore legalizzazione della circolazione quantomeno delle droghe leggere e chi, al contrario, ista per l'inasprimento delle misure sanzionatorie previste nel campo in ragione della negativa incidenza degli stupefacenti sulla pubblica salute e sulla pubblica sicurezza.
Il D.P.R. 309/90, pertanto, presenta un sistema punitivo penale incentrato sulla tipicità delle condotta offensiva, che tal non è quando gli indici sintomatici non descrivono la destinazione della sostanza a terzi (anche a titolo gratuito). Invero, pur non ignorando l'esistenza di una tesi del tutto opposta, a parere di chi scrive un fatto non può dirsi tipico se non è anche offensivo. Qualificare l'offensività come un fatto esterno alla tipicità equivale a deprivare l'illecito penalmente tipico della sua stessa natura teleologica, cioè il perseguimento di condotte lesive di beni giuridici meritevoli di tutela.
D'altra parte, come può osservarsi, in ambito di sostanze stupefacenti, l'offensività costituisce una direttrice essenziale sulla quale calibrare, come si vedrà, diversi istituti e problematiche.
Ad esempio, in tema di lieve entità del fatto, nel 2013 il legislatore è intervenuto sul comma 5° dell'articolo 73 (per mezzo del D.L. n. 146 del 23/12/2013, convertito con modificazioni dalla L. n. 10 del 21/02/2014) in due sensi: sono state apportate modifiche la cornice non solo modificando la cornice edittale e, soprattutto, è stata attribuita valenza di reato autonomo a una fattispecie che prima costituiva una mera circostanza. L'odierno art. 73, comma 5, D.P.R. 309/90, ad oggi, recita in tal senso: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329».
Ne deriva che qualsiasi condotta contemplata dall'art. 73 può essere qualificata come lieve se, avuto riguardo ai mezzi, alle modalità o alle circostanze dell'azione ovvero alla qualità e quantità delle sostanze detenute, può individuarsi una minima offensività rispetto al bene protetto, secondo i criteri distintivi enunciati dalla Corte di Legittimità.
Anche con riguardo all'istituto della particolare tenuità del fatto l'offensività svolge un ruolo primario di definizione dei contorni di punibilità. L'istituto in parola, introdotto con il D.Lgs 28/2015 e contemplato dall'art. 131 bis c.p., stabilisce che la punibilità è esclusa quando: «Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'art. 133, primo comma, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale».
Orbene, con riguardo alle condotte illecite in materia di sostanze stupefacenti sono sorti problemi interpretativi circa la compatibilità della causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis c.p. e l'art. 73, comma 5, D.P.R. 309/90. Ciò perché il concetto di lieve entità e quello di particolare tenuità sono diversi dal punto di vista strutturale e teleologico. Invero, se ai fini della ricerca dell'entità lieve del fatto assumono rilievo le precipue circostanze della condotta idonee a giustificare una degradazione punitiva, di fronte alla tenuità del fatto ciò che assume rilevanza è la minima capacità offensiva del comportamento del reo e la sua non abitualità.
In effetti, la giurisprudenza della Corte di Cassazione si è uniformata nel riconoscere la possibilità che fatto di lieve entità e particolare tenuità viaggino su due binari paralleli e non necessariamente coincidenti: il riconoscimento di un istituto non esclude necessariamente la configurabilità dell'altro e un determinato elemento probatorio polivalente può essere utilizzato dal giudicante anche per valutazioni diverse in ordine ai due aspetti qui contemplati, senza che possa ritenersi violato il principio del ne bis in idem (in tal senso, Cass. Pen, Sez. III, 28 maggio 2019, n. 36477).
Infine, deve segnalarsi una importante pronuncia della Corte Costituzionale, cioè la sentenza 9 febbraio 2018, n. 22, con cui è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 120, comma 2 del Codice della Strada nella parte in cui prevede l'automatica revoca della patente di guida da parte del Prefetto per l'ipotesi di condanna per i reati di cui agli artt. 73 e 74 del D.P.R. 309/1990. Sebbene tale decisione affonda la propria ratio nella progressiva stigmatizzazione di ogni forma di automatismo punitivo, contrario ai principi costituzionali europei e nazionali, deve osservarsi che anche in quest'ottica il principio di offensività svolge un ruolo centrale: l'Autorità amministrativa, infatti, ai fini della revoca della patente dovrà valutare una serie di elementi, tra cui l'effettiva capacità offensiva della condotta posta in essere dal reo.

Il reato di coltivazione di sostanze stupefacenti
L'articolo 73 del D.P.R. 309/1990 (c.d. Legge Stupefacenti) statuisce, al primo comma, che: «Chiunque, senza l'autorizzazione di cui all'articolo 17 coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende (..), sostanze stupefacenti o psicotrope … è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro ventisei mila a euro duecentosessanta mila». Al comma terzo, invece, si specifica che «le stesse pene si applicano a chiunque coltiva, produce o fabbrica sostanze stupefacenti o psicotrope diverse da quelle stabilite nel decreto di autorizzazione».
Si tratta, ictu oculi, di una norma che incrimina condotte eterogenee tra loro, sebbene teleologicamente orientate a rendere disponibile la droga sul mercato. In particolare, l'art. 73 del D.P.R. n. 309/1990 punisce anche la condotta di chiunque coltiva, senza autorizzazione, piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti o psicotrope.
Proprio questa configurazione criminosa ha destato numerosi dubbi interpretativi che sono stati affrontati sia dalla Corte Costituzionale sia dalla Corte di Cassazione.
Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di legittimità - che ha palesato netta chiusura alle istanze di ampliamento delle aree di non punibilità in tale ambito - costituisce un'ipotesi penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando tale attività sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale. Sulla scorta di questo indirizzo, infatti, la distinzione tra coltivazione "in senso tecnico-agrario" ovvero "imprenditoriale" e "coltivazione domestica" ai fini dell'integrazione criminosa risulterebbe del tutto irrilevante, atteso che qualsiasi tipo di coltivazione è caratterizzato dal dato essenziale e distintivo - rispetto alla detenzione - di contribuire ad accrescere la quantità di sostanza stupefacente esistente.
Tuttavia, ai fini della punibilità, l'esperienza pretoria affida all'organo giudicante il compito di verificare in concreto l'offensività della condotta riferita all'idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile. Ciò in quanto se è vero che la fattispecie criminosa in commento presenta natura di reato di pericolo presunto, è anche vero che l'evoluzione ermeneutica di matrice costituzionale impone il vaglio in concreto dell'offensività specifica della singola condotta accertata.


La coltivazione domestica integra un'ipotesi penalmente rilevante oppure no?
Il tema della produzione di sostanze stupefacenti attraverso la coltivazione arborea delle medesime si sviluppa entro i confini dell'offensività.
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 360/1995, ha dichiarato infondata la questione di illegittimità costituzionale dell'art. 73 D.P.R.309/90 per la paventata disparità di trattamento tra le condotte di detenzione e di coltivazione di sostanze stupefacenti, laddove la seconda era ritenuta punibile anche dinanzi ala prova della destinazione ad uso personale a differenza della prima. Nell'occasione, la Consulta, osservava che la detenzione presuppone un rapporto immediato con la sostanza e con l'uso personale della stessa. Tale aspetto non sarebbe riscontrabile nella coltivazione di sostanze droganti, comportamento con una maggiore pericolosità in re ipsa e idoneo a introdurre nel mercato ulteriore quantità dei prodotti vietati e potenzialmente lesivi della pubblica salute, valutabile in concreto dal giudice che dovrà acclarare l'impossibilità del fatto ex art. 49 c.p. in caso di non riscontrata inoffensività della condotta.
Altra sentenza miliare pronunciata sul tema dal Giudice delle Leggi è la n. 109/2016. In tale arresto, la Corte Costituzionale, nel dichiarare infondata la questione di illegittimità costituzionale dell'art. 75 D.P.R. 309/90 nella parte in cui non prevede tra le condotte punibili in via amministrativa anche quella di coltivazione di cannabis laddove finalizzata al mero consumo personale, sostanzialmente ribadisce i concetti enucleati nel 1995 in termini di maggiore pericolosità di tale condotta, tanto da giustificarne la più forte incisività punitiva (il principio di frammentarietà, infatti, pone in capo al legislatore di selezionare in via astratta le offese meritevoli di risposta sanzionatoria e la graduazione della medesima).
Sul punto, invece, nella giurisprudenza della Corte di Legittimità si sono delineati due orientamenti: il primo, più granitico e datato nel tempo, di carattere fortemente restrittivo, a tenore del quale il reato di coltivazione di piante da cui ricavare sostanze stupefacenti sarebbe reato di pericolo del pericolo, con tutela anticipata nel massimo in quanto prodromica all'aumento delle sostanze vietate sul mercato con alto rischio di lesività per la salute pubblica. Ai fini della punibilità, pertanto, basterebbe la posa dei semi dei tipi botanici vietati. Il secondo indirizzo interpretativo, invece, più garantista, ai fini della punibilità della condotta ha affermato l'insufficienza della mera coltivazione, richiedendo, quale quid pluris, il dato della maturazione delle infiorescenze delle piante, così da poterne apprezzare l'offensività in concreto per l'idoneità a produrre sostanze dall'efficacia drogante (sempre presunta in caso di coltivazione industriale e da accertare in caso di coltivazione domestica).
Ebbene il Supremo Consesso della Corte di Cassazione, con la sentenza 16 aprile 2020, n. 12348, perviene ad una soluzione innovativa e per certi versi peculiare, affermando il principio di diritto secondo cui «Non integra il reato di coltivazione di stupefacenti, per mancanza di tipicità, una condotta di coltivazione che, in assenza di significativi indici di un inserimento nel mercato illegale, denoti un nesso di immediatezza oggettiva con la destinazione esclusiva all'uso personale, in quanto svolta in forma domestica, utilizzando tecniche rudimentali e uno scarso numero di piante, da cui ricavare un modestissimo quantitativo di prodotto».
Tale approdo trae origine dalla distinzione che le Sezioni Unite tracciano tra tipicità e offensività. Secondo gli Ermellini, infatti, la tipicità del reato di coltivazione di piante produttive di sostanze stupefacenti si compone di tre elementi: il primo è l'appartenenza della pianta al tipo botanico vietato dalla legge; il secondo è dato dall'attitudine della pianta a giungere a maturazione e a produrre sostanze stupefacenti; il terzo è la realizzazione industriale dell'attività e non meramente domestica. Il punctum saliens è proprio questo: l'attenzione si sposta dal campo dell'offensività a quello della stretta tipicità, poiché la coltivazione in forma domestica è del tutto atipica perché non contemplata dal testo normativo di settore. L'art. 27 del D.P.R. 309/90, infatti, nel prevedere i requisiti per l'autorizzazione a coltivare piante da cui ricavare sostanze droganti per fini consentiti dalla legge, richiede parametri specifici e incompatibili con la produzione domestica: la superficie del terreno, le particelle catastali, la predisposizione di un programma definito dei tipi arborei da coltivare. Dunque, in definitiva, la condotta di coltivazione deve ritenersi non punibile, in quanto atipica e destinata all'uso personale, dinanzi alla presenza di alcuni elementi: la minima dimensione della produzione, lo svolgimento dell'attività in ambiente domestico, la rudimentalità delle tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante e ogni altro indice sintomatico della destinazione all'uso personale. Tuttavia, anche nel caso di coltivazione dal carattere industriale, l'organo giudicante non potrà prescindere dalla valutazione dell'offensività della condotta, da parametrare alla prefigurazione del positivo sviluppo dell'attività di coltivazione posta in essere.


Considerazioni conclusive
Come osservato ab initio, il principio di offensività - che esplica la propria portata incriminatrice nella sua triplice funzione di parametro di legittimità costituzionale delle norme, di vincolo astratto per il legislatore e di strumento di valutazione concreta per il giudice – nel campo delle sostanze stupefacenti riverbera effetti rilevanti, soprattutto in tema di coltivazione di piante da cui ricavare prodotti droganti.
La sentenza 1348/2020 delle Sezioni Unite rappresenta, certamente, una novità ermeneutica nello scenario della giurisprudenza sviluppatasi in materia, affermando la non punibilità della condotta di coltivazione domestica di piante da cui ricavare sostanze stupefacenti in quanto priva del requisito della tipicità. Tuttavia, proprio sulla scorta dei rassicuranti e mai deludenti risultati interpretativi derivanti dal principio di offensività, si ritiene che questo nuovo punto di osservazione difetti proprio nel punto di scissione tra tipicità e offensività, atteso che anche in caso di coltivazione domestica il soggetto agente possa ritrovarsi nella detenzione di quantitativi di sostanze stupefacenti idonei a poter essere immessi nel mercato e a violare il bene giuridico della salute pubblica e individuale tutelato dall'art. 32 della Costituzione. Non resta che attendere gli ulteriori sviluppi pretori e prendere atto di un eventuale e auspicato revirement.