Penale

Con l’appello del Pm possibile il riesame dei testi dell’accusa

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di Patrizia Maciocchi

Dopo la riforma Orlando del Codice di rito penale, se il pubblico ministero fa appello contro un’assoluzione sulla quale ha pesato la scarsa attendibilità di un testimone, il giudice deve rinnovare il dibattimento per riesaminarlo e verificare le nuove prove. Le modifiche al Codice di rito, introdotte con la legge 103/2017, tornano all’attenzione della Corte di Cassazione (sentenza 39077) perché tese a creare per la pubblica accusa un diritto speculare a quello riconosciuto all’imputato nel caso di ribaltamento della sentenza in un senso a lui sfavorevole.

Le Sezioni unite, infatti, con la sentenza Dasgupta (27620/2016) hanno negato la possibilità di affermare la colpevolezza dell’imputato, accogliendo il “ricorso” del Pm, senza risentire i testi giudicati decisivi per l’assoluzione in primo grado. Un passo da fare, anche d’ufficio, secondo quanto previsto dal codice di procedura penale (articolo 603, comma terzo. La Cassazione precisa allora che , in nome dei principi che devono regolare il contraddittorio nel processo, il pubblico ministero ha diritto al pari trattamento. Dunque a far riesaminare i testi dell’ accusa e ad acquisire e verificare le prove sopravvenute, in grado di incidere sulla dichiarazione “svalutata” in primo grado. La Suprema corte sottolinea che questa interpretazione - in linea con un processo equo come disegnato sia dalle norme interne sia dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo - ha trovato una consacrazione nel nuovo Codice di rito penale (articolo 603, comma 3-bis). Un “tassello” in base al quale il giudice è tenuto a rinnovare il dibattimento, in caso di appello del Pm, contro un’assoluzione per la quale è stata decisiva la scarsa credibilità di una dichiarazione. Nello causa esaminata, ad essere considerata non troppo attendibile era stata la parte offesa vittima di usura ed estorsione.

Nel processo c’era stato però un elemento nuovo costituito dalle affermazioni fatte da un collaboratore di giustizia in un altro procedimento.

Il giudice di appello aveva negato però che le dichiarazioni del “pentito” avessero valore di nuove prove, considerandole non decisive ma una semplice ritrattazione.

Un presupposto che l’aveva portato a respingere la richiesta del Pm di riascoltare la parte offesa. Per la Suprema corte l’istanza dell’accusa andava accolta, alla luce di quanto previsto dal codice di rito post riforma. Né si potevano “svilire” le nuove affermazioni del collaboratore, che andavano valutate, anche se considerate non indispensabili, ma in virtù della loro utilità nel processo. La decisività non é, infatti, un requisito richiesto e il dovere di un nuovo esame non viene meno, per il fatto che il collaboratore avesse “esternato” in un procedimento connesso o collegato. Ipotesi che il codice di rito ammette tra i mezzi di prova.

Il nuovo esame dei testi controversi é, infatti, lo strumento che, per eccellenza, consente di raggiungere una decisione che rispetti il canone «dell’oltre ogni ragionevole dubbio».

Corte di cassazione – Sentenza 39077/2018

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