Casi pratici

Constatazione amichevole di sinistro stradale c.d. C.I.D.

Libero convincimento del giudice: il limite delle prove legali e suo sindacato

di Tiziana Cantarella, Avvocato del Foro di Catania

la QUESTIONE
Qual è l'efficacia delle dichiarazioni rilasciate dalle parti nella constatazione amichevole di sinistro stradale (c.d. C.I.D.)? Si tratta di una confessione stragiudiziale o di una prova liberamente apprezzabile dal giudice? Può la c.t.u. superare il contenuto di tale modulo?


L'art. 116 c.p.c. rappresenta la norma cardine in una delle materie centrali del processo civile, quale quella del sistema di valutazione delle prove da parte del giudice.
In particolare, il primo comma consacra in via generale il principio del libero convincimento del giudice («il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento») ma tempera tale principio chiarendo che esso non opera in presenza di prove legali («salvo che la legge disponga altrimenti»). Il secondo comma indica le eterogenee situazioni dalle quali il giudice può trarre argomenti di prova, cioè indizi collocati al di sotto delle prove vere e proprie nell'ambito della scala di valori probatori.
Invero, pur se la relazione tra libero convincimento e prova legale è codificata secondo il rapporto regola-eccezione, permangono nel nostro ordinamento rilevanti ipotesi di prove legali, cioè di strumenti di prova la cui efficacia è predeterminata in astratto dal legislatore, senza possibilità di una diversa valutazione in concreto del giudice, quali ad esempio: confessione, giuramento, atto pubblico e scrittura privata. Segnatamente, il catalogo delle prove legali previste dall'ordinamento civilistico è dato dagli artt. 2700, 2702, 2705, 2709, 2712, 2713, 2714, 2715, 2720, 2733, 2734, 2735, 2738 c.c., nonché dall'art. 239 c.p.c. Trattasi di ipotesi numerose e significative, al punto che c'è chi ha osservato come, in realtà, il rapporto tra la regola del libero convincimento e l'eccezione della prova legale, sia soltanto apparente, e nella sostanza ribaltato nel senso che prevalgono sotto i profili quantitativo e qualitativo i casi di prova legale.
Peraltro, proprio per la struttura dell'art. 116 c.p.c. che formalmente indica le ipotesi di prova legale come eccezione alla regola del libero convincimento, dette ipotesi vanno intese come eccezionali e, in quanto tali, non suscettibili di applicazione analogica.
Con riferimento alle modalità di formazione del libero convincimento, va dato atto che nel nostro ordinamento non esiste una gerarchia di efficacia delle prove per la quale i risultati di alcune debbano prevalere nei confronti di altri dati probatori (cfr. Cass. civ., Sez. III, 18 aprile 2007, n. 9245; Cass. civ., Sez. I, 6 febbraio 2003, n. 1747). Ciò implica che (fuori dai casi di prova legale) le prove, anche se hanno carattere indiziario, sono tutte liberamente valutabili dal giudice di merito per essere poste a fondamento del suo convincimento, del quale il giudice deve dare conto con motivazione il cui unico requisito è l'immunità da vizi logici. Sul punto la giurisprudenza ha chiarito che la valutazione delle prove, e con essa il controllo sulla loro attendibilità e concludenza, e la scelta, tra le varie risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, sono rimesse esclusivamente al giudice di merito e sono sindacabili in Cassazione solo sotto il profilo della adeguata e congrua motivazione che sostiene la scelta nell'attribuire valore probatorio a un elemento emergente dall'istruttoria piuttosto che a un altro (cfr. Cass. civ., Sez. III, 16 dicembre 2011, n. 27197; Cassazione civ., Sez. II, Ord. 9 novembre 2020, n. 25021).
Ai fini di una corretta decisione adeguatamente motivata, si precisa che il giudice non è tenuto a dare conto in motivazione del fatto di aver valutato analiticamente tutte le risultanze processuali, né a confutare ogni singola argomentazione prospettata dalle parti, essendo invece sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il suo convincimento e l' iter logico seguito nella valutazione degli stessi per giungere alle proprie conclusioni, implicitamente disattendendo quelli morfologicamente incompatibili con la decisione adottata ( ex multis , cfr. Cass. civ., Sez. III, 28 agosto 2006, n. 14972).
Con riferimento al controllo sulla valutazione delle prove da parte del giudice, occorre effettuare un distinguo: da un lato, la violazione di norme di prova legale comporta un vizio di diritto censurabile in Cassazione ex art. 360, n. 4, c.p.c.; dall'altro lato, e relativamente alla prove libere, la valutazione operata dal giudice di merito è censurabile in cassazione solo indirettamente ex art. 360, n. 5, c.p.c. sotto il profilo dell'adeguata e congrua motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( ex plurimis , cfr. Cass. civ., Sez. III, 29 novembre 2012, n. 21234). Ne consegue che resta escluso che la parte possa far valere il contrasto tra la ricostruzione operata dal giudice di merito e quella proposta dalla difesa. Dunque, il vizio di omessa o insufficiente motivazione deducibile in sede di legittimità sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia.
Sul punto, è recentissimamente intervenuta la giurisprudenza della Suprema Corte, la quale ha precisato che la valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni, costituisce un'attività riservata in via esclusiva all'apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione; sicché rimane estranea al vizio previsto dall'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. qualsiasi censura volta a criticare il "convincimento" che il giudice si è formato, a norma dell'art. 116, commi 1 e 2, c.p.c., in esito all'esame del materiale istruttorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, atteso che la deduzione del vizio di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c. non consente di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali, contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una diversa interpretazione al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito (Cassazione civ., ord. 19 luglio 2021, n. 20553).
Venendo all'efficacia delle prove legali, si suole distinguere tra prove legali negative e positive. Le prime sono volte a limitare la facoltà del giudice di ammettere o riconoscere valore probatorio a determinate prove (cfr. ad esempio gli artt. 2721-2726 c.c. circa i limiti alla prova testimoniale).
Le prove legali positive sono, invece, quelle che impongono al giudice di attribuire valore privilegiato a determinate fonti di prova (cfr. gli artt. 2700 e 2702 c.c. circa il valore probatorio dell'atto pubblico e della scrittura privata, nonché l'art. 2733 c.c. per il valore probatorio della confessione). Ciò determina la conseguente impossibilità di offrire la prova contraria alle risultanze della prova legale, a patto che non si provochi la formazione di una prova legale contraria, quale quella risultante dalla confessione mediante interrogatorio formale o dal giuramento. Difatti, solo dinanzi a due o più prove legali dotate della medesima valenza probatoria, viene in rilievo la possibilità di un apprezzamento del giudice che dia credito a quella ritenuta più convincente.

Confessione: tratti peculiari, modalità di resa, efficacia probatoria

Secondo la definizione datane dall'art. 2730 c.c., la confessione è la dichiarazione che una parte fa di fatti a essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte.
In via generale, sono ritenuti tratti peculiari del mezzo di prova in esame: l'elemento soggettivo (c.d. animus confitendi ), consistente nella consapevolezza e volontà di ammettere e riconoscere la verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all'altra parte, e l'elemento oggettivo, che si ha qualora dall'ammissione del fatto obiettivo che forma oggetto della confessione, escludente qualsiasi contestazione sul punto, derivi un concreto pregiudizio all'interesse del dichiarante e al contempo un corrispondente vantaggio nei confronti del destinatario della dichiarazione. È, altresì, necessario che la confessione abbia per oggetto un fatto storico dubbio, salvo restando la possibilità di invalidarla qualora il confitente dimostri sia la inveridicità della dichiarazione sia che la non rispondenza di questa al vero dipende dall'erronea rappresentazione o percezione del fatto rappresentato.
Come è noto, la confessione può essere resa con diverse modalità. È giudiziale la confessione resa in giudizio (art. 2733 c.c.): essa può essere spontanea se è resa volontariamente dalla parte, e può essere resa oralmente in udienza, o essere contenuta in un atto del processo sottoscritto personalmente dalla parte (art. 229 c.p.c.). Inoltre, la confessione giudiziale può essere provocata mediante interrogatorio formale (art. 228 c.p.c.). È invece stragiudiziale la confessione che viene resa al di fuori del processo; essa è soltanto spontanea e può essere effettuata in varie forme, ossia oralmente o per iscritto, e può anche essere contenuta in un testamento ai sensi dell'art. 2735, comma 1, c.p.c. Peraltro, trattandosi di una dichiarazione che viene resa al di fuori del processo, la confessione stragiudiziale deve essere provata in giudizio. La relativa prova può essere data con ogni mezzo, ma valgono i limiti di ammissibilità della prova testimoniale (art. 2735, comma 2, c.p.c.).
L'efficacia probatoria tipica della confessione è quella della prova legale. In tal senso dispone, infatti, per la confessione giudiziale l'art. 2733, comma 1, c.c., ove afferma che essa forma piena prova contro colui che l'ha fatta. La confessione è, dunque, vincolante per il suo autore (salvo l'ipotesi di revoca di cui all'art. 2732 c.c.), ma anche per il giudice e per tutte le altre parti. La parte che ha reso la confessione non è, quindi, ammessa a provare il contrario, e il giudice non potrà valutare liberamente la prova, né accertare diversamente il fatto confessato.
L'efficacia di prova legale viene attribuita anche alla confessione stragiudiziale quando essa sia stata fatta alla parte o a un suo rappresentante (art. 2735, comma 1, c.c.). Tuttavia, vi sono varie ipotesi nelle quali la legge prevede espressamente che la confessione sia o diventi liberamente valutabile dal giudice, configurandosi dunque come prova libera. Il riferimento va a tutte quelle ipotesi in cui la confessione è priva dell'efficacia di prova legale per diverse ragioni: anzitutto, secondo l'art. 2733, comma 1, c.c., la confessione giudiziale ha efficacia di prova legale «purché non verta su diritti indisponibili»; inoltre, l'art. 2733, comma 2, c.c. prevede che in caso di litisconsorzio necessario la confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorti sia liberamente apprezzata dal giudice; infine, l'art. 2735 c.c. dispone che la confessione stragiudiziale sia liberamente valutata dal giudice se è fatta a un terzo o se è contenuta in un testamento.

La dichiarazione confessoria contenuta nel modulo di constatazione amichevole del sinistro (c.d. C.I.D.)

La questione della efficacia della confessione nei procedimenti litisconsortili si è posta in particolare nei giudizi per il risarcimento dei danni derivanti da circolazione di veicoli, con riguardo alla efficacia della confessione resa dal conducente-responsabile nei confronti dell'assicuratore convenuto ex art. 18, legge 24 dicembre 1969, n. 990 (oggi abrogato dal D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, c.d. Codice delle assicurazioni private). Di conseguenza, ci si è interrogati in merito alla valenza probatoria da attribuire alle dichiarazioni contenute nel modulo di constatazione amichevole di sinistro stradale (c.d. C.I.D.) recante la sottoscrizione di entrambi i conducenti coinvolti in un sinistro stradale. Il dibattito trae origine dalla necessità di coordinare la differente efficacia di prova che dal sistema risulta assegnabile alle dichiarazioni contenute nel modulo C.I.D., rispettivamente verso il responsabile-assicurato e l'assicuratore.
Difatti, sul piano normativo, il valore probatorio del modulo di constatazione amichevole nei confronti dell'assicuratore è espressamente indicato dall'art. 143, comma 2, del D.Lgs. n. 209/2005, il quale riprendendo peraltro una norma già introdotta dall'art. 5, comma 2, legge n. 29/1977 prevede che «quando il modulo sia firmato congiuntamente da entrambi i conducenti coinvolti nel sinistro si presume, salvo prova contraria da parte dell'impresa di assicurazione, che il sinistro si sia verificato nelle circostanze, con le modalità, e con le conseguenze risultanti dal modulo stesso». Detta norma conferisce, dunque, alla versione dei fatti resa, nella forma del C.I.D., dai conducenti coinvolti, oltre al valore di denuncia del sinistro, anche una particolare efficacia probatoria, in quanto assegna alle dichiarazioni in esso contenute una presunzione iuris tantum di veridicità, superabile dall'assicuratore soltanto mediante prova contraria: in tal modo trasferisce su quest'ultimo il rischio della mancanza di ulteriori prove.
Per ciò che concerne, invece, il valore delle dichiarazioni contenute nel C.I.D. verso il danneggiante, poiché le sue dichiarazioni si sostanziano nell'ammissione di fatti contrari ai propri interessi ma favorevoli alla controparte danneggiata, è possibile ricondurle allo schema della confessione stragiudiziale, e, quindi, considerarle pienamente probanti nei confronti di colui che le ha rese.
La tratteggiata duplice valenza probatoria del C.I.D. è stata, tuttavia, messa in discussione nel caso in cui il danneggiato eserciti congiuntamente l'azione diretta contro l'assicuratore ex art. 18 legge n. 990/1969 (oggi refluito nel testo dell'art. 144 del Codice delle assicurazioni private) e l'azione ordinaria ex art. 2054 c.c. contro il responsabile del danno che sia anche proprietario del veicolo assicurato, chiedendo la loro condanna in solido al risarcimento dei danni subiti. Il contrasto è determinato dal fatto che l'art. 144 cit. configura un'ipotesi di litisconsorzio necessario laddove, al comma terzo, prescrive per l'azione diretta contro l'assicuratore la chiamata in causa del responsabile del danno, comunemente identificato con il proprietario del veicolo assicurato.
In proposito, la più recente giurisprudenza ha affermato che nel giudizio promosso dal danneggiato nei confronti dell'assicuratore della responsabilità civile da circolazione stradale, il responsabile del danno, che deve essere chiamato nel giudizio sin dall'inizio, assume la veste di litisconsorte necessario, poiché la controversia deve svolgersi in maniera unitaria tra i tre soggetti del rapporto processuale danneggiato, assicuratore e responsabile del danno e coinvolge inscindibilmente sia il rapporto di danno, originato dal fatto illecito dell'assicurato, sia il rapporto assicurativo, con la derivante necessità che il giudizio deve concludersi con una decisione uniforme per tutti i soggetti che vi partecipano.
Pertanto, deve escludersi che, nel giudizio instaurato ai sensi dell'art. 144 cit. , sia nel caso in cui sia stata proposta soltanto l'azione diretta che nell'ipotesi in cui sia stata avanzata anche la domanda di condanna nei confronti del responsabile del danno, si possa pervenire a un differenziato giudizio di responsabilità in base alle dichiarazioni confessorie rese dal responsabile del danno, in ordine ai rapporti tra responsabile e danneggiato, da un lato, e danneggiato e assicuratore dall'altro. Conseguentemente, va ritenuto che la dichiarazione confessoria, contenuta nel modulo di constatazione amichevole del sinistro, resa dal responsabile del danno proprietario del veicolo assicurato e come detto litisconsorte necessario, non ha valore di piena prova nemmeno nei confronti del solo confitente, ma deve essere liberamente apprezzata dal giudice (cfr., Cassazione civ., Sez. VI III, Ord. 19 maggio 2021, n. 13710; Cassazione civ., Sez. III, Ord. 14 ottobre 2019, n. 25770; Cass. civ., Sez. VI, 23 gennaio 2014, n. 1394; Cass. civ., Sez. III, 7 novembre 2013, n. 25047; Cass. civ., Sez. III, 29 gennaio 2010, n. 20353; Cass. civ., Sez. Un., 5 maggio 2006, n. 10311).
Siffatta ricostruzione non è, tuttavia, condivisa da altra giurisprudenza (tutt'ora minoritaria), la quale afferma che sussistendo tra responsabile e assicuratore una fattispecie di litisconsorzio meramente processuale, la confessione giudiziale resa dal primo ha efficacia piena soltanto nei suoi confronti, mentre è liberamente valutabile dal giudice nei confronti dell'assicuratore (cfr. Cass. civ., Sez. III, 7 maggio 2007, n. 10304; Cass. civ., Sez. III, 23 febbraio 2004, n. 3544; Cass. civ., Sez. III, 12 febbraio 1998, n. 1471). In base a questa impostazione, il litisconsorzio necessario sussisterebbe soltanto tra il proprietario del veicolo e l'assicuratore per la R.c.a. mentre non sussisterebbe un'ipotesi di litisconsorzio necessario tra il conducente e tale assicuratore ovvero tra il primo e il proprietario a norma dell' , che prevede solo un'ipotesi di obbligazione solidale e quindi di litisconsorzio facoltativo, con la conseguenza che nei confronti dell'assicuratore e del proprietario del veicolo le affermazioni confessorie rese dal conducente vanno liberamente apprezzate dal giudice di merito, mentre esse fanno piena prova a norma degli artt. 2733- c.c. nei confronti del conducente confidente.
Sulla questione, si è, di recente, pronunciata la Suprema Corte, la quale, nel ribadire il principio di diritto secondo cui le risultanze del modulo di contestazione amichevole del sinistro sono liberamente apprezzate dal giudice, ha tuttavia affermato che l'efficacia del modulo deve essere diversamente valutata nell'ipotesi in cui lo stesso sia sottoscritto dai conducenti, non proprietari dei mezzi, atteso che il litisconsorte necessario è il proprietario del veicolo (Cassazione civ., Sez. VI III, Ord. 19 maggio 2021, n. 13710; In senso contrario, v. Cassazione civ., Sez. VI III, ord. 12 novembre 2020, n. 25468, secondo la quale, invece, il giudizio deve essere uniforme ed unitario per tutte le parti (danneggiato, responsabile e assicuratore) senza che il modulo possa valere in maniera differente tra questi, alla luce dell'art. 2733 c.c., secondo cui, in caso di litisconsorzio necessario, la confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorti è liberamente apprezzata dal giudice).
In conclusione, e volendo stare alla soluzione preferibile offerta dalla tesi prevalente sopra esaminata, l'applicazione della norma di cui all'art. 2733, comma 2, c.c. alla fattispecie in esame, consente di assegnare al modulo di constatazione amichevole sottoscritto dall'assicurato il valore di prova libera verso tutti i convenuti, e come tale, di prova che deve essere valutata congiuntamente alle altre risultanze istruttorie nell'accertamento della responsabilità dell'assicurato, garantendo l'uniformità e l'unitarietà di quest'ultimo nei tre distinti rapporti che intercorrono tra i litisconsorti (segnatamente il primo tra danneggiante-assicurato e danneggiato nell'illecito, il secondo tra assicurato e assicuratore nel contratto di assicurazione, e, infine, il terzo tra danneggiato e assicuratore nell'azione diretta ex art. 144, Codice delle assicurazioni private). Dunque, in caso di sinistro stradale e di conseguente denuncia congiunta dello stesso, la dichiarazione confessoria contenuta nel c.d. C.I.D. è liberamente apprezzata dal giudice del merito nei confronti di tutti, non solo nei riguardi della società assicuratrice ma anche nei confronti del confitente.

Rapporti tra il modulo di constatazione amichevole di sinistro e la consulenza tecnica d'ufficio

Alla luce delle considerazioni che precedono, appare, dunque, più agevole, condurre l'analisi dei rapporti intercorrenti, sempre nell'ambito della valutazione delle prove in un processo avente a oggetto il risarcimento dei danni conseguenti a un incidente stradale, tra il contenuto del modulo di costatazione amichevole allegato dalle parti e le risultanze della consulenza tecnica eventualmente disposta d'ufficio dal giudice. Entra, pertanto, in gioco un'altra tematica di sicuro interesse processuale, cioè quella della rilevanza probatoria della c.t.u, della quale vale la pena effettuare delle considerazioni di ordine sistematico.
Dal combinato disposto degli artt. 61, 62 e 191 c.p.c., si desume che il consulente tecnico è quel soggetto, fornito di specifiche conoscenze tecniche, scientifiche o umanistiche in campi del sapere umano diversi da quello giuridico, che, in virtù di tale preparazione specifica, viene chiamato a integrare le conoscenze del giudice, allorché per la risoluzione della causa siano necessarie cognizioni in specifiche materie che il giudice stesso non conosce né è tenuto a conoscere.
La consulenza tecnica d'ufficio, pur non potendo essere considerata a stretto rigore come un mezzo di prova in senso proprio rientra, tuttavia, tra i mezzi istruttori in senso lato. Si osserva, infatti, che tale collocazione sistematica s'impone in ragione del fatto che la c.t.u., disciplinata dagli artt. 191-201 c.p.c., è comunque collocata nell'ambito della sezione codicistica dedicata all'istruzione probatoria, pur se prima di quella dedicata all'assunzione e di mezzi di prova in generale di cui agli artt. 202-209 c.p.c.
Ciò posto, giova considerare che, a seconda dell'incarico affidato al consulente, si suole distinguere fra consulenza tecnica "deducente" e "percipiente": la prima ricorre nel caso in cui il consulente è chiamato a dedurre un fatto principale ignoto da un fatto secondario noto in base alle leggi scientifiche di cui è a conoscenza; la seconda si riferisce all'ipotesi nella quale al consulente è demandata la percezione e descrizione di fatti rilevanti in causa che possono essere colti e rappresentati solo mediante l'utilizzo di particolari conoscenze scientifiche (cfr. Cass. civ., Sez. III, 23 febbraio 2006, n. 3990; sul punto, tuttavia, si v. Cass. 13710/2021 sopra citata). Dunque, nel primo caso la consulenza presuppone l'avvenuto espletamento dei mezzi di prova e ha per oggetto la valutazione dei fatti i cui elementi sono stati completamente provati dalle parti. Nel secondo caso, la consulenza può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, purché la parte quantomeno deduca il fatto che pone a fondamento del proprio diritto. In nessun caso, tuttavia, la consulenza tecnica può essere "esplorativa", cioè volta ad accertare circostanze di fatto la cui dimostrazione rientri, invece, nell'onere probatorio delle parti.
Come ritenuto dalla costante giurisprudenza di legittimità, le risultanze della c.t.u. non hanno valore vincolante per il giudice, il quale rimane peritus peritorum . Si ritiene, in particolare, che il giudice, laddove voglia conformarsi ai risultati della consulenza, non sia tenuto a motivare in modo analitico il percorso logico seguito nel merito delle questioni trattate in c.t.u., essendo sufficiente che motivi le ragioni per cui la ritiene attendibile (cfr. Cassazione civ., Sez. TRI, Ord. 6 maggio 2021, n. 11917; Cassazione civ., Sez. L., 4 dicembre 2020, n. 27910; Cass. civ., Sez. I, 3 marzo 2011, n. 5148; Cass. civ., Sez. I, 4 maggio 2009, n. 10222). Diverso il ragionamento se il giudice intenda discostarsi dai risultati della c.t.u.: in tal caso, egli sarebbe tenuto a motivare adeguatamente e specificatamente le sue valutazioni, essendo insufficiente il richiamo generico di principi tecnici dei quali non sia indicata la fonte e non verificabili nella loro congruità ed esattezza.
Venendo all'esame del tema in oggetto, e in considerazione delle riflessioni precedenti, si deve dare atto della possibilità da parte della c.t.u., anche se disposta a distanza di molto tempo dall'incidente stradale occorso, di ribaltare le dichiarazioni rese nella constatazione amichevole (da ultimo, cfr. Cassazione civ., Sez. III, Ord. 11 gennaio 2021, n. 200; Cass. civ., Sez. III, 12 marzo 2014, n. 5641). Ipotesi quest'ultima che ricorre evidentemente nei casi in cui manchi, sulla scorta di un giudizio di insufficienza o inattendibilità del materiale probatorio offerto dalle parti, la prova del fatto costitutivo della domanda.

Considerazioni conclusive

Appare evidente, dunque, che, in tema di responsabilità civile automobilistica, la questione relativa alla efficacia della c.d. constatazione amichevole di sinistro stradale (c.d. C.I.D.) venga risolta dalla giurisprudenza prevalente affidandole il valore di un elemento indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice. Ne consegue che il contenuto di tale modulo potrà essere superato da una prova contraria ivi comprese le presunzioni e le risultanze di una consulenza tecnica d'ufficio laddove il giudice la ritenga più idonea a fondare la motivazione della propria decisione rispetto ad altre risultanze probatorie.

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a cura della Redazione di PlusPlus24 Diritto

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