Lavoro

Contributi Cassa forense, compensazione sempre deducibile nel corso del giudizio

Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 9645 depositata oggi, accogliendo il ricorso di un legale

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di Francesco Machina Grifeo

Nel corso di un giudizio per crediti previdenziali vantati dalla Cassa forense, l'avvocato può sempre chiedere la compensazione tra quanto dovuto e quanto da lui vantato nei confronti dell'istituto. Trattandosi di partite inerenti ad un medesimo rapporto, infatti, non scattano le preclusioni relative alle "domande nuove". Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 9645 depositata oggi, accogliendo con rinvio il ricorso di un legale.

La Corte d'appello di Palermo, invece, dopo aver accolto l'appello principale della Cassa (dichiarando dovuti i contributi iscritti a ruolo per gli anni 2002-2003), aveva rigettato l'appello incidentale dell'avvocato dichiarando "inammissibile, siccome nuova, la domanda di compensazione".

Proposto ricorso, il legale ha dedotto la violazione dell'art. 437 c.p.c. e dell'art. 1241 c.c. perché la Corte territoriale non aveva considerato che "trattandosi di compensazione impropria, essa poteva essere avanzata in qualunque fase e grado del giudizio di merito e comunque era stata ritualmente proposta fin dal ricorso introduttivo del giudizio".

Motivo accolto dalla Cassazione per la quale (indipendentemente dalla circostanza che la domanda di compensazione fosse stata spiegata o meno nel ricorso introduttivo del giudizio) "è consolidato nella giurisprudenza il principio secondo cui la compensazione impropria, che si verifica quando - come nella specie - i contrapposti crediti e debiti delle parti hanno origine da un unico rapporto, rende inapplicabili le norme processuali che pongono preclusioni o decadenze alla proponibilità delle relative domande ed eccezioni, poiché in tal caso la valutazione delle reciproche pretese importa soltanto un semplice accertamento contabile di dare ed avere, al quale il giudice può procedere anche in assenza di eccezione di parte o della proposizione di domanda riconvenzionale".

Nel respingere gli altri motivi di doglianza, la Suprema corte ha poi ribadito che l'azione proposta contro l'iscrizione a ruolo dei contributi previdenziali costituisce una "opposizione all'esecuzione", ossia un'ordinaria azione di accertamento negativo del credito a cognizione piena, per cui "il giudice è tenuto alla verifica della fondatezza della pretesa contributiva nell'an e nel quantum, ancorché l'ente previdenziale si sia limitato a chiedere il mero rigetto dell'opposizione senza formulare alcuna specifica domanda al fine di sollecitare la cognizione in ordine alla sussistenza dell'obbligazione, di talché non costituisce domanda nuova la successiva richiesta di condanna dell'opponente al pagamento del credito di cui alla cartella".

E ancora che l'eccezione di inesigibilità dei contributi per difetto di continuità professionale, siccome formulata per la prima volta in grado di appello (essendosi il ricorrente limitato ad eccepire in prime cure soltanto la prescrizione del credito), rientra nel divieto di eccezioni nuove (di cui agli artt. 345 comma 20 e 437 comma 20 c.p.c.). Il divieto infatti si riferisce "ad ogni eccezione non rilevabile d'ufficio, senza che possa distinguersi tra eccezioni in senso stretto, per le quali opererebbe il divieto di jus novorum in appello, ed altre eccezioni non rilevabili d'ufficio, per le quali detto divieto non opererebbe".

Per la Sezione lavoro, infine, si deve dare continuità al principio secondo cui, in tutti i casi in cui il professionista abbia diritto alla restituzione dei contributi versati alla Cassa di Previdenza in ragione dell'inefficacia ai fini pensionistici dell'anno o degli anni cui essi si riferiscono, "l'obbligo di rimborso concerne soltanto i contributi soggettivi, non anche i contributi integrativi, per i quali non è previsto il diritto alla restituzione, in coerenza con la funzione solidaristica degli stessi".

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