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Corte di Giustizia UE: regole di trasparenza a tutela dei consumatori anche nei mutui in valuta estera, con rischio cambio

Nota a sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, Sezione Prima, nella causa C-609/19

di Antonino La Lumia*

La Corte di Giustizia, con la sentenza del 10 giugno 2021, si pronuncia su una domanda pregiudiziale proposta da un Tribunale francese, avente a oggetto l'interpretazione degli artt. 3 e 4 della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.

La pronuncia appare di significativo interesse per l'intero settore dei rapporti tra consumatori e operatori del settore finanziario, atteso che mette in luce un principio ben chiaro: le clausole abusive previste da un contratto stipulato con un consumatore non vincolano quest'ultimo e devono essere considerate tamquam non essent, di talché non possono produrre effetti sulla sua situazione di diritto e di fatto. Per tale ragione, la Corte ritiene che la domanda tesa all'accertamento del carattere abusivo di una clausola del genere non possa essere soggetta a termini di prescrizione.

Fatti di causa

Tale domanda pregiudiziale è stata presentata nell'ambito di una controversia avente ad oggetto un mutuo ipotecario in valuta estera, che vede coinvolti, da un lato, la BNP Paribas Personal Finance e, dall'altro alcuni consumatori: il tema principale è rappresentato dal carattere asseritamente abusivo di alcune clausole contrattuali, secondo le quali i pagamenti a scadenza fissa dovevano essere imputati prioritariamente agli interessi, con previsione - al fine di liquidare il saldo del conto - dell'estensione della durata del contratto e l'aumento dell'importo delle rate mensili.

È opportuno, ai fini dell'esame della sentenza, puntualizzare alcuni dettagli delle suddette clausole, dal momento che la Corte segue un condivisibile iter logico-giuridico che origina proprio dal tenore di tali prescrizioni:

-era previsto il rimborso delle rate mensili a scadenze fisse in euro e la conversione di queste ultime in franchi svizzeri, al fine di contribuire al pagamento degli interessi e all'ammortamento del capitale;

-la durata del credito sarebbe stata prorogata di cinque anni e le scadenze previste in euro sarebbero state imputate in via prioritaria sugli interessi, quando l'andamento delle parità aumentasse il costo del credito per il mutuatario;

-se, mantenendo l'importo dei pagamenti in euro, non fosse stato possibile liquidare la totalità del saldo del conto sulla durata residuale iniziale maggiorata di cinque anni, l'importo delle mensilità sarebbe stato aumentato.

Orbene, la controversia nasce dal fatto che, stante la morosità del cliente, la BNP Paribas aveva ottenuto la declaratoria di decadenza del termine e la vendita forzata dell'immobile ipotecato: si era opposto l'esecutato, sostenendo appunto l'abusività delle suddette clausole.In particolare, le argomentazioni principali concernevano la condotta poco trasparente della BNP Paribas, che avrebbe tratto in inganno il cliente, esponendolo a un rischio di cambio non soggetto a limite massimo: per questo motivo, chiedeva che venisse dichiarata la nullità del contratto e, in subordine, che l'importo del credito fosse ridotto a causa del carattere abusivo di una clausola di indicizzazione implicita, delle clausole relative alle valute di conto e di pagamento, della clausola di ammortamento e della clausola di opzione d'acquisto contenute nel contratto in parola nonché della mancata menzione, nel medesimo contratto, del rischio di cambio.

La BNP Paribas si difendeva sostenendo l'infondatezza delle domande, in quanto il consumatore sarebbe stato edotto di ogni caratteristica del mutuo, e comunque eccependo la prescrizione dell'azione.

Sulle questioni pregiudiziali

Il tema sul quale si focalizza il giudice del rinvio è tutt'altro che banale e ha una portata di ampio respiro, che può coinvolgere potenzialmente un enorme numero di contenziosi, proprio per la frequenza delle fattispecie.In particolare, occorre valutare se sia possibile considerare le clausole come "corpo unico" rispetto all'oggetto principale del contratto (non potendo quindi, a tale titolo, essere qualificate come abusive in quanto chiare e comprensibili) oppure, al contrario, se si debba ritenere che possano essere individualmente considerate abusive ad eccezione, come risulterebbe dalla giurisprudenza della Corte, della clausola che prevede il rimborso del mutuo in valuta estera.

Quanto alle informazioni ricevute dal cliente prima della sottoscrizione del mutuo, il giudice rileva che, mentre potevano ritenersi esaustive sulla stabilità della parità tra l'euro e il franco svizzero, lo stesso non poteva dirsi per il rischio di cambio, che deriverebbe dall'applicazione combinata di diverse clausole del contratto di mutuo di cui trattasi nel procedimento principale, non sarebbe affatto menzionato in tale contratto.Ecco, dunque, che appare l'argomento centrale: quello della "trasparenza", che dovrebbe portare il consumatore alla piena conoscenza delle caratteristiche del prodotto finanziario, che sta per sottoscrivere: ciò, in virtù della buona fede del professionista (banca o società finanziaria), che dovrebbe fornire tutte le indicazioni utili e opportune in questo senso, alla luce dell'esperienza quanto all'analisi degli andamenti prevedibili.

Sulla prima questione pregiudiziale

La prima questione verte sull'interpretazione dell'art. 4, par. 2, della direttiva 93/13, secondo il quale "La valutazione del carattere abusivo delle clausole non verte né sulla definizione dell'oggetto principale del contratto, né sulla perequazione tra il prezzo e la remunerazione, da un lato, e i servizi o i beni che devono essere forniti in cambio, dall'altro, purché tali clausole siano formulate in modo chiaro e comprensibile".

Il giudice del rinvio chiede, in sintesi, se la norma debba essere interpretata nel senso che la nozione di «oggetto principale del contratto» comprenda le clausole del contratto di mutuo che prevedono che i rimborsi a scadenze fisse siano imputati prioritariamente agli interessi e che prevedono, al fine di liquidare il saldo del conto, l'estensione della durata di tale contratto e l'aumento dell'importo delle rate mensili.

Sul punto, la Corte premette correttamente che l'unica ipotesi in cui il giudice può controllare il carattere abusivo di una clausola, che verte sulla definizione dell'oggetto principale del contratto, si verifica qualora la stessa non sia chiara e comprensibile: aggiunge che, trattandosi di un'eccezione al meccanismo di controllo nel merito delle clausole abusive, come previsto dal sistema di tutela dei consumatori attuato dalla direttiva in parola, occorre dare un'interpretazione restrittiva alla disposizione.

I passaggi successivi dei giudici lasciano, tuttavia, una soluzione "aperta".

Infatti, la Corte - dopo aver citato alcuni precedenti in materia - si sofferma sul caso di specie e sembra fornire un'indicazione di merito e insieme metodologica, rilevando che "Sebbene le clausole contrattuali di cui alla prima questione facciano parte del meccanismo finanziario che esprime il rischio di cambio che caratterizza un mutuo espresso in valuta estera e rimborsabile in valuta nazionale, esse non si riferiscono, direttamente, all'importo prestato o agli interessi del mutuo da rimborsare, né alla fissazione della moneta di conto e di pagamento. Tali clausole gestiscono infatti le conseguenze del cambiamento di parità precisando le regole di rimborso applicabili in funzione delle variazioni del tasso di cambio, cosicché esse potrebbero essere considerate modalità accessorie di pagamento che non integrano l'«oggetto principale del contratto», ai sensi dell'articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13".

Tuttavia, i giudici continuano, nel percorso argomentativo, sostenendo che - dagli elementi della controversia - risulta che le clausole in questione concretizzano il rischio di cambio derivante dalle variazioni della parità tra la moneta del conto e la moneta di pagamento, nonché il tasso di interesse ad esso collegato, il quale caratterizza tale prestito: per tale ragione, sarà il giudice del rinvio a dover valutare, tenendo conto dei criteri indicati dalla Corte, se tali clausole afferiscano alla natura stessa dell'obbligazione del debitore di rimborsare l'importo messo a sua disposizione.

Sulla questione, la Corte conclude che "l'articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che le clausole del contratto di mutuo che prevedono che i rimborsi a scadenze fisse siano imputati prioritariamente agli interessi e che prevedono, al fine di liquidare il saldo del conto, l'estensione della durata di tale contratto e l'aumento dell'importo delle rate mensili rientrano nell'ambito di applicazione di suddetta disposizione nel caso in cui le clausole di cui trattasi fissino un elemento essenziale che caratterizza il contratto in parola".

Sulla terza e quarta questione

La Corte passa, quindi, alla trattazione delle successive questioni (in particolare, la terza e la quarta, analizzate congiuntamente), che - alla luce del contenuto complessivo della pronuncia - appaiono di interesse primario per la centralità degli argomenti esposti e per le soluzioni interpretative fornite dai giudici, valevoli come principi generali.

Con tali questioni, il giudice del rinvio chiede se il sopra menzionato art. 4, par. 2, della direttiva 93/13 debba essere interpretato nel senso che, nell'ambito di un contratto di mutuo espresso in valuta estera, il requisito di trasparenza delle clausole in esame possa considerarsi sufficientemente integrato, qualora il professionista abbia fornito al consumatore esclusivamente informazioni oggettive e astratte circa l'incidenza sugli obblighi finanziari, senza tuttavia che siano state assicurate quelle riguardanti il contesto economico idoneo ad avere ripercussioni sulle variazioni del tasso di cambio.

Sul punto, la Corte conduce un ragionamento che - riprendendo gli orientamenti tradizionali espressi dalla stessa giurisprudenza europea (e, per quanto interessa, anche da quella italiana) - porta a evidenziare l'assoluta rilevanza del requisito della trasparenza delle informazioni fornite al cliente prima della conclusione di un contratto, in merito alle condizioni praticate e, soprattutto, al loro possibile sviluppo economico-finanziario in corso del rapporto.

In proposito, anche la giurisprudenza della nostra Cassazione è da sempre in linea con tale orientamento aderente alla cautela sostanziale della normativa in vigore nel settore di riferimento: tra le tante, si veda Cass. Civ., sez. I, 3 aprile 2017, n. 8619, relativa a una fattispecie di negoziazione di titoli, ma espressione di principi di carattere generale ("L'obbligo di diligenza, correttezza e trasparenza posto a carico della banca nella negoziazione di titoli richiede sia una conoscenza preventiva adeguata del prodotto finanziario offerto all'investitore, sia un'informazione delle caratteristiche dello stesso concreta e specifica, senza che possa giustificarsi alcun deficit delle informazioni assunte dall'intermediario sulla base della sua dimensione locale e della non partecipazione diretta alla vendita dei titoli. Ad affermarlo è la Cassazione secondo la quale nessuna scappatoia è concessa alle banche nella vendita dei titoli a rischio: le dimensioni dell'istituto e del portafoglio investimenti non sono rilevanti", in Guida al Diritto, 2017, 18, 44).

L'approccio di merito è, ovviamente, del tutto condivisibile ed è ben esplicitato nel percorso argomentativo che connota pregevolmente l'intera pronuncia.I giudici, infatti, partono dal presupposto che la completezza delle informazioni fornite al consumatore è un elemento irrinunciabile, in quanto è sulla base delle stesse che egli sceglie se vincolarsi o meno mediante la sottoscrizione del contratto proposto: ne discende un concetto - sostanziale e, diremmo, metodologico - "a tutto tondo" della trasparenza, che non può essere pertanto ricondotto sic et simpliciter al mero dato formale della comprensibilità delle clausole.

È questa, d'altro canto, la stessa ratio legis della direttiva 93/13: il sistema di tutela introdotto a livello europeo, infatti, prende corpo proprio dalla classica (e, forse, per certi versi, ineliminabile) asimmetria informativa tra operatore professionale (banca o società finanziaria) e consumatori.

In tal senso, dunque, trasparenza significa – a parere della Corte – mettere il cliente nelle concrete condizioni di avere piena consapevolezza di tutti i caratteri del "prodotto" bancario o finanziario proposto, in modo da poter valutare, anche in termini prospettici, la meritevolezza e soprattutto la sostenibilità dell'operazione rispetto alla propria condizione patrimoniale.

Ecco perché la Corte ritiene che, nel caso di specie, debba essere il giudice nazionale - nell'attività di analisi delle circostanze ricorrenti al momento della conclusione del contratto di mutuo - a verificare che il consumatore abbia ricevuto informazione corretta di tutti gli elementi idonei a incidere sulla portata del suo impegno, valutando così consapevolmente il costo totale del suo mutuo.

Il "corto circuito" informativo sarebbe stato causato dal fatto che il cliente, pur avendo ricevuto un significativo numero di informazioni circa le condizioni del mutuo prima della sottoscrizione, non era stato tuttavia reso edotto dell'ipotesi del rischio di cambio, atteso che i dati forniti riguardavano esclusivamente l'ipotesi che la parità euro/franco svizzero sarebbe rimasta stabile.

La circostanza non è banale, dal momento che - proprio nei mutui in valuta estera - l'operatore deve fornire indicazioni precise circa il funzionamento del meccanismo di cambio e dei rischi finanziari connessi; inoltre, il consumatore deve essere in grado di comprendere le eventuali conseguenze negative nel caso di deprezzamento della moneta del proprio Paese e di aumento del tasso di interesse estero: ecco perché le simulazioni, in questi casi, possono essere di ausilio unicamente se sono basate su dati completi e contengono valutazioni oggettive, chiare e comprensibili.

In tale ottica, pienamente convincente, la Corte conclude che, nell'ambito di un contratto di mutuo di tal genere, il requisito della trasparenza non possa dirsi sussistente qualora il consumatore non sia stato messo a conoscenza delle potenziali conseguenze pregiudizievoli, alle quali potrebbe andare incontro, durante l'intero svolgimento del rapporto, nel caso di variazione dei tassi di cambio.

Sulla seconda questione

Anche in ordine alla seconda questione, la Corte mantiene ferma la posizione di fondo espressa nei precedenti punti analizzati: il giudice del rinvio, in particolare, chiede se l'articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 93/13 debba essere interpretato nel senso che le clausole di cui trattasi creino un significativo squilibrio fra diritti e obblighi delle parti a danno del consumatore, qualora esse espongano il consumatore a un rischio di cambio sproporzionato.I giudici, dopo aver premesso che - per giurisprudenza costante - tale analisi deve essere condotta necessariamente tenendo conto del criterio generale della buona fede, rileva che le clausole sembrano effettivamente far gravare sul consumatore un rischio sproporzionato, proprio perché l'operatore professionale non avrebbe rispettato il requisito di trasparenza, omettendo di comunicare - in sede di sottoscrizione - elementi essenziali per garantire la piena consapevolezza degli effetti del contratto.

Sulla base di tale considerazione e dopo aver sottolineato che la verifica definitiva spetta al giudice nazionale, la Corte risolve la questione, ritenendo che - alla luce del requisito di trasparenza previsto dall'art. 5 della direttiva 93/13 - il professionista non avrebbe potuto ragionevolmente attendersi, negoziando in modo trasparente con il consumatore, che quest'ultimo aderisse a una simile clausola: in tale ottica, concludono i giudici, lo squilibrio tra le parti dovrebbe ritenersi sussistente.

* a cura dell'avv. Antonino La Lumia, Founding Partner di Lexalent

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