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Corte UE: Il datore di lavoro per un'esigenza reale può chiedere ai suoi dipendenti di non indossare simboli di convinzioni politiche, filosofiche o religiose.

La decisione dei giudici europei ha origine da un ricorso presentato dinanzi al Tribunale del lavoro di Amburgo da due impiegate di una società di diritto tedesco, che sono state invitate a non indossare vistosi segni attestanti la loro appartenenza religiosa.

di Vittorio De Luca e Debhora Scarano*

La Corte di giustizia dell'Unione europea torna sul delicato tema dell'utilizzo di simboli religiosi sui luoghi di lavoro con la pronuncia pubblicata il, 15 luglio 2021, nelle cause riunite C-804/18 e C-341/19. Secondo la Corte il divieto di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose può essere giustificato dall'esigenza del datore di lavoro "di presentarsi in modo neutrale nei confronti dei clienti o di prevenire conflitti sociali".

La decisione dei giudici europei ha origine da un ricorso presentato dinanzi al Tribunale del lavoro di Amburgo da due impiegate di una società di diritto tedesco, che sono state invitate a non indossare vistosi segni attestanti la loro appartenenza religiosa.

I giudici del rinvio hanno deciso di interrogare la Corte sull'interpretazione della Direttiva 2000/78. In particolare, è stato chiesto se una norma interna di un'impresa, che vieta ai lavoratori di indossare sul luogo di lavoro segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose costituisca una discriminazione diretta o indiretta fondata sulle convinzioni personali; a quali condizioni l'eventuale differenza di trattamento indirettamente fondata sulle convinzioni personali che discende da una tale norma possa essere giustificata e quali siano gli elementi da prendere in considerazione nell'ambito dell'esame del carattere appropriato di una tale differenza di trattamento.

I giudici comunitari hanno affermato che un regolamento aziendale avente le caratteristiche sopra descritte non costituisce una discriminazione diretta fondata sulle convinzioni personali verso i lavoratori, a condizione che "tale norma sia applicata in maniera generale e indiscriminata". Una tale imposizione non comporta, secondo la Corte, nemmeno una discriminazione indiretta nella misura in cui il diverso trattamento imposto sia limitato allo stretto necessario, oltre che giustificato dal perseguimento di una politica di neutralità nei confronti dei clienti o degli utenti che risponda a una reale esigenza del datore di lavoro, con onere della prova a carico del datore di lavoro medesimo.

Per quanto riguarda poi le finalità del datore, la Corte rileva che la volontà di mostrare, nei rapporti con i clienti, una linea di neutralità politica, filosofica o religiosa può essere legittima. Gli elementi rilevanti che servono a individuare una tale esigenza sono, in particolare, i diritti e le lecite aspettative dei clienti o degli utenti. In conclusione, in mancanza di una esigenza reale e dimostrabile e di un comportamento aziendale che non faccia distinzione alcuna tra le diverse convinzioni politiche, filosofiche o religiose, la regolamentazione aziendale è da considerare discriminatoria.

*a cura degli avvocati Vittorio De Luca e Debhora Scarano De Luca & Partners

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