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Covid-19, la (difficile) configurabilità della responsabilità penale per il delitto di "epidemia" a carico di dirigenti e strutture sanitarie

di Matteo Mangia*

Il presente contributo, anche alla luce di una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, esamina la possibilità che possa essere ascritta responsabilità penale in capo ai dirigenti sanitari coinvolti nell'emergenza pandemica durante la c.d. "prima ondata" per il reato di "epidemia" (sub specie a titolo colposo).

1.PREMESSA

L'emergenza pandemica avvenuta nel 2020 ha determinato, tre le altre conseguenze, anche l'iscrizione di diversi procedimenti giudiziari nei quali viene contestato il reato di epidemia colposa a carico di dirigenti di strutture ospedaliere e sociosanitarie.

Tuttavia, la fisionomia della norma e l'elaborazione giurisprudenziale formatasi intorno alla stessa la rendono difficilmente configurabile nelle ipotesi ora citate.

Una recente pronuncia della Suprema Corte ha indirettamente confermato siffatta posizione, giudicando corretta la motivazione dei giudici di prime cure che avevano assolto il legale rappresentante di una RSA - in una vicenda relativa ad alcuni contagi avvenuti presso la struttura - sostenendo l'impossibilità di configurare il reato in esame in caso di condotte omissive.

Non solo, alla luce del contesto del tutto inedito ed emergenziale che ci ha occupato nel corso di tutto il 2020, anche gli standard probatori (che passano necessariamente per accertamenti scientifici) imposti dalla Giurisprudenza ai fini dell'ascrizione della responsabilità penale paiono particolarmente complessi da raggiungere.

Muovendo dalla pronuncia ora citata, pare quindi necessario verificare se – in termini generali – nelle vicende che interessano il panorama giudiziario relativo all'emergenza COVID-19, sia astrattamente ipotizzabile (o meno) il reato di epidemia.

2.LA CONDOTTA TIPICA DELL'ART. 438 C.P. E LA (IN)CONFIGURABILITÀ DELLE IPOTESI OMISSIVE

Principiando dall'analisi della fattispecie, si nota come l'art. 438 del codice penale sanziona con la pena dell'ergastolo chiunque "cagioni un'epidemia mediante la diffusione di germi patogeni".

La norma, inserita nei delitti contro la pubblica incolumità, si configura come fattispecie di pericolo (si tratta pertanto di reato "a consumazione anticipata") e prevede al secondo comma un aggravamento della pena laddove dal fatto derivi la morte di più persone .

Inoltre, per quanto in questa sede più interessa, va evidenziato che - in virtù dell'espresso richiamo operato dall'art. 452 c.p. – il reato in esame è punito anche a titolo colposo, con un più mite trattamento sanzionatorio .

Con riferimento al fatto tipico, nella evidente laconicità della norma, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che la condotta integrativa (consistente appunto nella diffusione di germi patogeni) debba cagionare un evento definito come "la manifestazione collettiva di una malattia infettiva umana che si diffonde rapidamente in uno stesso contesto di tempo in un dato territorio, colpendo un rilevante numero di persone" (Così Trib. Trento, 16 luglio 2004).

L'evento che ne deriva è quindi, al contempo, un evento di danno e di pericolo, "costituendo il fatto come fatto di ulteriori possibili danni, cioè il concreto pericolo che il bene giuridico protetto dalla norma, rappresentato dall'incolumità e dalla salute pubblica, possa essere distrutto o diminuito" (Trib. Trento, 16 luglio 2004) .

Il primo ostacolo che pare frapporsi tra la norma e la sua concreta applicazione pare afferire alla condotta: la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie sostengono infatti che tale fattispecie sia inquadrabile nei reati commissivi " a forma vincolata".

Nel novero di tali reati si ricomprendono tutte le disposizioni che presuppongono che l'azione venga posta in essere con specifiche modalità (e.g. la truffa, che impone l'utilizzo di artifizi e raggiri), differenziandosi dalle fattispecie "a forma libera" che non impongono alcun vincolo modale, concentrandosi sull'evento cagionato dalla condotta (e.g. l'omicidio, che sanziona chi cagiona la morte senza predeterminare requisiti di condotta).

Con particolare riferimento al reato di epidemia, la considerazione di cui sopra poggia sull'incontrovertibile dato letterale che richiede che il fatto tipico consista nella "diffusione di germi patogeni", evocando così una condotta che dovrà configurarsi in modo attivo e seguire una specifica modalità di realizzazione.

Un' interpretazione diversa parrebbe confliggere con i principi del diritto penale che – come noto – impediscono al giudice di operare un'interpretazione analogica in malam partem della norma, consentendogli solamente un'interpretazione estensiva, che non contrasti però con il tenore letterale della stessa.

Le vicende giudiziarie legate al COVID-19 paiono viceversa evocare ipotesi di condotte omissive: invero, a ben vedere, esse risultano accomunate dall'addebito a carico dei sanitari di non aver impedito la diffusione del virus all'interno delle strutture.

Si dovrà quindi verificare se, con riferimento alla fattispecie di epidemia, si possano configurare ipotesi di "reato omissivo improprio", che derivano dalla combinazione della norma con l'art. 40 cpv c.p., che statuisce che "non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo".

In altre parole, laddove vi sia l'obbligo giuridico di impedire un evento (derivante da leggi, regolamenti, fonti di diritto privato) e tale evento non venga impedito dall'agente, si potrà configurare una ipotesi di responsabilità penale.

Nel caso di specie, è pacifico che possa sussistere in capo al dirigente sanitario l'obbligo giuridico di impedire un evento epidemico nella struttura da lui gestita; tuttavia, la giurisprudenza più recente sostiene che la clausola di equivalenza prevista dall'art. 40 cpv c.p. possa "combinarsi" solamente con una norma di parte speciale "a forma libera".

La Suprema Corte ha infatti chiarito che la configurazione di un reato omissivo improprio sia compatibile solamente con le ipotesi di reato "la cui realizzazione prescinde dalla necessità che la condotta presenti determinati requisiti modali" (Cfr. Cass. pen, sez. IV, 12 dicembre 2017, n. 9133 ) .

Tale impostazione si basa sul principio per cui l'equivalenza tra il cagionare e il non impedire un evento richiesta dall'art. 40 cpv c.p. non possa rinvenirsi nei reati a forma vincolata, non potendosi individuare nell'omesso impedimento dell'evento il particolare disvalore espresso dalle modalità dell'azione richiesta dalla norma incriminatrice .

Pertanto, sulla base delle considerazioni svolte sopra che qualificano quale reato "a forma vincolata" la fattispecie in esame, pare non configurabile il reato omissivo improprio di epidemia.

Tale linea ermeneutica è stata confermata da alcune pronunce relative proprio al reato in esame, le quali hanno espressamente statuito come tale delitto non sia configurabile a titolo omissivo "in quanto l'art. 438 cod pen. con la locuzione "mediante la diffusione di germi patogeni", richiede una condotta commissiva a forma vincolata, incompatibile con il disposto dell'art. 40, comma secondo, cod. pen., riferibile esclusivamente alle fattispecie a forma libera" .

La recente pronuncia della Suprema Corte (Cass. pen., sez. IV, 4 marzo 2021, n. 20416) enunciata in premessa, riferita proprio al caso di un "focolaio" COVID-19 scoppiato in una struttura sociosanitaria, ha ritenuto di aderire a siffatta impostazione, giudicando corretta la motivazione del Tribunale che aveva assolto l'imputato perché il fatto non costituiva reato, in quanto l'ipotesi di reato contestata – appunto l'epidemia – non era compatibile con la forma omissiva.

La citata sentenza, seppur non fornisca particolari spunti di novità in punto di diritto, confermando semplicemente l'orientamento maggioritario precedente, costituisce la prima pronuncia relativa al reato di epidemia contestato nello scenario del COVID-19.

In quanto tale, le valutazioni in essa contenute si applicano anche alle ipotesi di reato a carico dei sanitari per non aver impedito la diffusione del virus all'interno delle strutture, con la conclusione che non potrà essere realizzata la fattispecie di epidemia – nel caso di un "focolaio" di COVID-19 – in assenza di una condotta attiva di diffusione del virus .

3.DIFFICOLTÀ PROBATORIE: IL (DUPLICE) NESSO CAUSALE E LA CAUSAZIONE DI UN PERICOLO PER LA PUBBLICA INCOLUMITÀ

Anche volendo aderire per un momento ad una interpretazione di segno opposto (che ammetta la possibilità di configurare un'ipotesi di condotta omissiva), vi sono ulteriori aspetti che rendono comunque difficile l'integrazione (rectius l'attribuzione di responsabilità penale) del reato a carico dei dirigenti di strutture ospedaliere e sociosanitarie coinvolti nella "prima ondata" della pandemia.

Come già anticipato, l'evento tipico consiste in una malattia contagiosa che, per la sua spiccata diffusività, sia in grado di infettare una moltitudine di destinatari, recando con sé, in ragione della capacità di ulteriore espansione e di agevole propagazione, il pericolo di contaminare una porzione ancor più vasta di popolazione . ( Cass pen., sez. I, 30 ottobre 2019, n. 48014)

Da tale circostanza discende un duplice ordine di considerazioni: in primis, dovrà procedersi ad un puntuale accertamento del nesso causale che lega la condotta all'evento, in assenza del quale non potrà ascriversi alcuna responsabilità.

Sul punto si è infatti sostenuto che la potenzialità espansiva è "un pericolo il cui accertamento presuppone, perché la fattispecie possa dirsi integrata, la preventiva verifica circa la causazione di un evento dannoso per un certo numero di persone, per giunta ricollegabile, sotto il profilo causale, alla condotta tenuta dal soggetto agente" (Trib. Trento, 16 luglio 2004).

Nel caso di specie, si tratterà quindi di accertare – mediante il ricorso a leggi scientifiche di copertura – che i contagi da COVID-19 (sia a carico dei pazienti che degli operatori sanitari) siano dovuti alla condotta negligente o imprudente dell'agente.

Ebbene, appare evidente la difficoltà di ricostruire puntualmente tale legame in una situazione emergenziale e di incertezza scientifica tutt'ora esistente. Ciò, non solo a causa della carenza di elementi probatori a sostegno (si pensi, a titolo esemplificativo, alla scarsità dei tamponi effettuati nei primi mesi o alla mancanza di esami autoptici e istologici) e delle conseguenti complicazioni nella ricostruzione del fatto, ma anche in funzione della relativa attendibilità delle leggi scientifiche di copertura, che, a causa della novità del virus e delle sue caratteristiche (e.g. modalità di propagazione, veicolazione del virus da parte dei soggetti asintomatici ecc.), dovranno essere sottoposte ad un severo vaglio scientifico (sui problemi relativi all'utilizzabilità di teorie scientifiche nuove, sulle quali cioè la comunità scientifica non ha avuto modo di esprimersi compiutamente, si veda Cass. pen., sez. IV, 4 giugno 2019, n. 45933 ) .

Tali considerazioni valgono a maggior ragione se si pensa alle ipotesi omissive, come nel caso di specie, dove per accertare il nesso causale si deve ricorrere ad un giudizio controfattuale: sul punto, la più recente giurisprudenza ha ribadito gli alti standard probatori richiesti in una valutazione di questo tipo, sostenendo che "in ordine all'accertamento del nesso causale […] nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo" ( Cfr. Cass. pen., sez. IV, 15 febbraio 2021, n. 5806 ).

In altri termini, oltre a dimostrare che la condotta doverosa omessa avrebbe evitato l'evento, si dovrà escludere che l'evento stesso non sia stato causato da altri fattori .(Si pensi - ad esempio - all'accertamento delle cause eziologiche del mesotelioma, il quale può derivare sia dall'inalazione di fibre di fibrocemento che dal fumo. Sulla importanza dell'esclusione di decorsi causali alternativi si veda, ex multis, Cass. pen., sez. IV, 12 febbraio 2014, n. 9695 )

Nel caso di specie – a titolo esemplificativo – dovrà essere dimostrato che il contagio si sarebbe potuto evitare se si fosse posta in essere la condotta diligente omessa e che esso si sia verificato nella struttura sanitaria a causa delle negligenze organizzative/procedurali dei dirigenti, dovendosi escludere il suo accadimento per altra causa.

Inoltre, la fattispecie in esame prevede un evento di pericolo: posto che il principio di offensività impone che possano assumere rilevanza penale solamente fatti che abbiano effettivamente offeso un bene giuridico , dovrà darsi evidenza che la condotta dell'agente abbia posto in pericolo un numero indeterminato di persone.

Da questo punto di vista, appare chiara la difficoltà di accertare se sia stata o meno posta in pericolo la "pubblica incolumità " in una situazione di pre-esistente diffusione dell'epidemia.

Si tratta di un'operazione tutt'altro che agevole e che dovrà fondarsi su circostanze riferite al caso concreto, non essendo sufficiente un giudizio di mera probabilità (si tratta infatti di fattispecie di pericolo "concreto" e non "astratto").

Naturalmente, anche la prova della c.d. condotta alternativa lecita che avrebbe evitato il verificarsi dell'evento dovrà fondarsi su valutazioni applicate al caso concreto e alla effettiva possibilità di porre in essere il comportamento rispettoso delle regole cautelari, nella logica dell'inderogabile principio ad impossibilia nemo tenetur .

La Suprema Corte di Cassazione, sul punto ha infatti sottolineato che "non può essere soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con valutazione "ex ante", non avrebbe potuto comunque essere evitato" . (Cfr. Cass. pen, sez. IV, 11 febbraio 2016, n. 7783)

È evidente che anche quest'ultimo vaglio non potrà prescindere dal considerare la situazione emergenziale in cui le ipotetiche condotte di reato sono state poste in essere, valutando – tra gli altri – la lacunosità delle conoscenze scientifiche disponibili, la prevedibilità dimensionale del fenomeno epidemico, e la disponibilità organizzativa (e.g. assenza di personale) e di mezzi (e.g. carenza di DPI).

Tale stringente esigenza è stata ribadita anche dalla Procura Generale presso la Suprema Corte di Cassazione che, in una informativa indirizzata alle Procure della Repubblica sul territorio italiano, ha evidenziato la necessità da parte della Accusa di dover considerare le "conoscenze scientifiche progressivamente acquisite, in particolare relative alla malattia e alle possibilità organizzative e terapeutiche", al fine di "capire se fosse esigibile un comportamento organizzativo e terapeutico diverso".

Ciò, prosegue l'informativa, dovendosi altresì valutare il profilo temporale, "essendo evidente che nella gestione dei primi casi i sanitari disponevano di un livello di conoscenza inferiore a quello acquisito successivamente".

Ebbene - fatte ovviamente salve le peculiarità di ogni vicenda - con riferimento al caso della diffusione del COVID-19 nelle strutture socio-sanitarie, appaiono evidenti le criticità nell'individuare una condotta alternativa lecita che fosse effettivamente realizzabile in uno scenario emergenziale di tale portata.

4.CONCLUSIONI

Il reato di epidemia non è contemplato nel c.d. "scudo penale" (più correttamente si tratta di una causa di esclusione della punibilità) – introdotto in sede di conversione del d.l. 44/2021 – che prevede l'esenzione dalla responsabilità per i reati di omicidio e lesioni colpose commessi nell' "esercizio di una professione sanitaria e che trovano causa nella situazione di emergenza" per le ipotesi di colpa lieve .

Ciononostante vi sono numerosi ostacoli all'applicazione concreta del reato di epidemia nello scenario del COVID-19.

Anzitutto la difficile compatibilità della norma con le ipotesi di condotta omissiva. Dal punto di vista dell'elemento oggettivo del reato, dovrà prima accertarsi il nesso di causa tra condotta ed evento mediante il ricorso a leggi scientifiche di copertura e, successivamente, verificare l'avvenuta causazione di un pericolo per la pubblica incolumità.

Dovranno inoltre essere indentificate la regola cautelare violata e la condotta alternativa lecita esigibile che avrebbe impedito la realizzazione degli eventi del reato (quello dannoso e quello pericoloso).

L'accertamento dovrà soddisfare lo standard probatorio dell'oltre ogni ragionevole dubbio (sul perimetro applicativo di tale standard si veda, ex multis, Cass. pen., sez. VI, 28 aprile 2020, n. 13155) richiesto dalla più recente giurisprudenza applicato ad uno scenario concreto di pre-esistenza del virus e della sua circolazione rispetto alle condotte contestate.

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*A cura dell'dell'Avv. Matteo Mangia, Partner 24ORE Avvocati