Lavoro

Danno da stress lavoro-correlato per l’inattività imposta al dipendente

Anche in assenza dell’intento mobbizzante privare il lavoratore dei propri compiti o farlo vivere in un ambiente di perenne conflittualità può determinare la malattia, cioè il danno che il datore deve risarcire

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di Paola Rossi

L’inattività può ben essere fonte di stress lavoro-correlato anche se l’organizzazione “difettosa” posta in essere dal datore di lavoro non è finalizzata a mobbizzare il lavoratore lasciato con le mani in mano. Si tratta comunque di condizione idonea a creare quello stato patologico che può causare disturbi o disfunzioni fisiche, psicologiche e sociali. E se è provato il nesso tra tale stato patologico e la privazione dei quotidiani compiti lavorativi il datore è tenuto al risarcimento del danno. E a nulla rileva un’eventuale patologia pregressa se comunque lo stress lavorativo ne ha determinato l’aggravamento anche se non l’insorgenza. Stesso discorso vale quando la fonte del danno subito dal lavoratore sia quello di essere inserito in un contesto lavorativo connotatao da forte conflittualità. Anche in tal caso può determinarsi un danno che il datore di lavoro è tenuto a risarcire. Tanto l’esser privato della propria attività lavorativa o il convivere in un ambiente lavorativo conflittuale sono violazioni degli obblighi organizzativi in materia di sicurezza del luogo di lavoro e di garanzia di svolgimento delle mansioni proprie assegnate ai lavoratori.

La Corte di cassazione - con la sentenza n. 22161/2024 - ha accolto il ricorso di una dipendente pubblica che a partire da un dato ordine di servizio del Comune-datore di lavoro si era ritrovata di fatto per due anni senza alcuna attività da svolgere. La lavoratrice aveva dopo poco ricevuto la diagnosi di stato ansionso-depressivo e il giudice di primo grado, adito circa dopo due anni dalla prima diagnosi, aveva stabilito oltre 10mila euro di risarcimento del danno da stress lavoro-correlato a carico dell’ente locale. Quest’ultimo in appello aveva ottenuto il ribaltamento della decisione di prime cure in quanto veniva disconosciuto il nesso tra patologia denunciata e la condizione della donna sul luogo di lavoro. Infatti, era stato accolto il motivo di impugnazione con cui il Comune riteneva errata la conclusione del giudice di primo grado. Secondo la decisione ora annullata in Cassazione non poteva far risalire l’eziologia della malattia psichica a un momento praticamente coincidente con l’insorgere della nuova situazione determinatasi sul luogo di lavoro: inattività e conflittualità ambientale. Inoltre, risultava che la donna qualche mese prima dell’ordine di servizio posto sotto la lente dei giudici avesse già fatto riscorso a visita e cura per problemi psichici. Ciò secondo il Comune e il giudice di secondo grado doveva portare a escludere il nesso tra condizione lavorativa e stato di malattia. Ossia l’assenza del lamentato danno a causa della responsabilità del datore.

La Cassazione accoglie il ricorso in quanto il giudice di appello avrebbe dovuto affidarsi a una consulenza tecnica per poter ribaltare la sentenza di primo grado e afferma che non è solo l’insorgenza ma anche l’aggravamento di uno stato patologico a poter essere fonte di danno per stress lavoro-correlato.

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