Decreto 231, oneri di prevenzione da ricalibrare
Ci sono notevoli discrepanze territoriali nell’applicazione della disciplina ed esiti applicativi non scontati in ordine ai reati-presupposto
Gli studi sulla regolazione condividono la necessità di un approccio “scientifico” nella costruzione delle norme. Un circolo virtuoso che muove dalla diagnosi del problema (attraverso uno sguardo esperto capace di penetrare la realtà, raccogliere dati, svolgere indagini empiriche) per poi passare all’elaborazione di una generalizzazione causale sulla capacità dell’innovazione normativa a modificare la realtà nel senso auspicato.
Per quanto possibile, in questa valutazione prognostica delle performance della regolazione dovrebbero essere escluse finalità meramente simboliche, mentre è essenziale bilanciare costi e benefici, soppesando gli effetti collaterali della nuova normativa. L’ultimo passaggio della regolazione, quella che chiude il cerchio, è la verifica che gli obiettivi desiderati siano stati raggiunti.
D’altra parte, non è un mistero che anche il miglior rulemaker ha capacità predittive e risorse necessariamente limitate. Si dovrebbe procedere dunque, nella ricerca della più efficace strategia normativa, per tentativi ed errori, andando a correggere e rimediare, alla luce dell’esperienza, ai limiti della legislazione emersi nella prassi.
In questa prospettiva si colloca la necessità di sottoporre la rivoluzionaria disciplina sulla responsabilità da reato degli enti, che ha appena compiuto un significativo ciclo di vent’anni di vita, a un test di controllo attraverso ricerche empiriche e dati statistici. Questi ultimi, sebbene ancora da perfezionare nella raccolta e analisi dei risultati, mostrano un'immagine in chiaroscuro. Più analiticamente si rinvengono notevoli discrepanze territoriali nell’applicazione della disciplina ed esiti applicativi non scontati in ordine ai reati-presupposto: si staglia, con circa il 25%, la categoria dei reati ambientali, seguita a breve distanza dai procedimenti per morte o lesioni con violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro e, per una percentuale di poco inferiore al 20%, la truffa ai danni dello Stato e dell’Ue. I reati societari e quelli in materia finanziaria non superano complessivamente il 5%, mentre i delitti contro la pubblica amministrazione per i quali vi è contestazione all’ente sfiorano l’8% del totale dei procedimenti 231.
Gli esiti processuali riservano non poche sorprese: le condanne variano, per tutte le famiglie di reato, tra il 10% e il 15%, registrandosi un numero assai cospicuo di archiviazioni e di assoluzioni. La maggior parte dei procedimenti riguarda società a responsabilità limitata e società di persone, un elemento corrispondente al tessuto imprenditoriale italiano. Si tratta solo di cursorie notazioni inziali dalle quali muovere per una ricerca promossa dal Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale che impegni studiosi di diversa estrazione disciplinare con le associazioni rappresentative di categoria (Confindustria e Assonime) già all’opera con rilevazioni sull’attuazione dei “modelli 231” nelle imprese.
La strada è aperta per una riflessione che valorizzi i dati empirici con l’obiettivo di misurare e migliorare l’effettività della disciplina, completando il circolo virtuoso della legislazione. Il numero limitato delle iscrizioni dei procedimenti 231 è indice probabilmente di un sistema che merita di essere attuato più efficacemente in ambito giudiziario ma potrebbe anche mostrare qualche virtù preventiva del sistema già concretamente esplicata in questi anni, con una riduzione del tassi di incidenza della criminalità d’impresa.
Rilevanti appaiono la composizione del tessuto imprenditoriale italiano e le attuali condizioni economiche delle aziende italiane provate dalle conseguenze della pandemia. In questo senso un’analisi costi-benefici rispetto agli obiettivi è essenziale per dosare efficacemente gli oneri organizzativi volti alla prevenzione del rischio-reato che gravano sulle imprese.
Si dovrà poi rafforzare la reciproca fiducia tra le agenzie di enforcement e le imprese rendendo maggiormente prevedibile, ex ante, la regola di condotta dell’ente e limitando il pregiudizio del “senno del poi” in sede giudiziaria. Del pari potranno aprirsi maggiori spazi alla fuoriuscita dell’ente dal processo, secondo esperienze invalse negli Stati Uniti e in altri ordinamenti europei.
L’esito cui aspirare è un modello cooperativo tra attori pubblici e privati il cui fulcro sia la correzione delle criticità procedurali e l’apprendimento organizzativo della migliore prevenzione.
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