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Decreto rilancio: facciamo il punto sul divieto di licenziare

di Marina Olgiati e Francesco Torniamenti, Trifirò & Partners Avvocati

L'articolo 80 del Decreto Legge n. 34, in vigore dal 19 maggio 2020 (cd. “Decreto Rilancio”), ha modificato l'art. 46 del D.L. n. 18/2020 (Decreto “Cura Italia”, convertito nella L. n. 27/2020) portando a “cinque mesi”, a decorrere dal 17 marzo 2020, il divieto di procedere a licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo ex art. 3, L. n. 604/1966 ed il divieto di avviare procedure di licenziamento collettivo ex artt. 4, 5 e 24 L. n. 223/1991.


In aggiunta, la nuova norma stabilisce che:
a) le procedure relative all'esperimento del tentativo di conciliazione di cui all'art. 7, L. n. 604/1966, in corso al momento dell'entrata in vigore del Decreto, sono sospese;
b) il datore di lavoro che dal 23 febbraio 2020 al 17 marzo 2020 ha proceduto a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell'art. 3 della L. n. 604, ha la possibilità di revocarli anche successivamente al decorso del termine di legge (15 giorni dall'impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore ex art. 18, co. 10, L. n. 300/1970), purché contestualmente chieda la fruizione degli ammortizzatori sociali di cui agli artt. da 19 a 22, D.L. n. 18/2020 a partire dalla data in cui avrebbe avuto efficacia il licenziamento. In tal caso, il rapporto di lavoro si intende r ipristinato senza soluzione di continuità e senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro.


Il Decreto Rilancio ha, quindi, sostanzialmente confermato l'impianto normativo precedente e, così come prima, anche ora la nuova disposizione lascia spazio a dubbi circa l'applicazione del divieto di licenziamento in determinati casi, ovvero con riguardo a talune categorie di dipendenti ed a talune tipologie di licenziamento.
Con riguardo alla prima problematica, va detto che il divieto di licenziamento non riguarda i dipendenti per i quali è possibile il recesso ad nutum.


Quindi, il divieto non vale per:
- i lavoratori assunti in prova;
- i lavoratori che hanno maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia;
- i lavoratori domestici;
- gli apprendisti che hanno compiuto il periodo di formazione, considerando che, al termine di detto periodo, il datore di lavoro ha facoltà di recedere dal rapporto (ex art. 42, co. 4, D.lgs. n. 81/2015). Va osservato che, viceversa, il datore non potrà licenziare l'apprendista per giustificato motivo oggettivo durante l'apprendistato (gli apprendisti sono, infatti, parificati ai lavoratori a tempo indeterminato ai sensi dell'art. 41, D.lgs. n. 81/2015). È dubbio, poi, se si possa licenziare l'apprendista che non raggiunge gli obiettivi formativi in base all'attestazione dell'istituzione formativa (cfr. art. 42, co. 3, D.lgs. n. 81/2015, in ipotesi di apprendistato c.d. “di primo livello”).


La risposta potrebbe, tuttavia, essere affermativa poiché, in tal caso, il licenziamento può considerarsi “soggettivo” anziché oggettivo.


Vi sono, poi, altre due categorie di dipendenti in relazione alle quali il divieto di licenziamento parrebbe essere escluso dall'art. 46, benché, in merito, vi siano alcune perplessità, ovvero:
- i dirigenti: l'art. 46 vieta il recesso per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3, L. n. 604/1966, diposizione quest'ultima che non si applica ai dirigenti. Quindi, da un punto di vista strettamente letterale, dal divieto di licenziamento di cui si discute è esclusa la categoria dirigenziale. Peraltro, non può omettersi di considerare che è vietato il licenziamento del dirigente in ambito collettivo (cfr. art. 24, L. n. 223/1991, come modificato dall'art. 16, L. n. 161/2014). Parrebbe, dunque, contradditoria la previsione che, da un lato, vieta il licenziamento collettivo del dirigente, ma, dall'altro lato, ne consente il licenziamento individuale. Se si volesse porre l'accento su tale discrasia e si considerasse la finalità della legge - che è quella di impedire l'interruzione dei rapporti di lavoro per ragioni economiche / organizzative nell'ambito del più ampio disegno di attenuare il più possibile le conseguenze socio-economiche che derivano dall'emergenza sanitaria – si potrebbe forse concludere che il legislatore abbia voluto vietare tutti i licenziamenti, compresi anche quelli individuali del dirigente per ragioni economiche.


In ogni caso, è chiaro che l'eventuale possibilità di licenziare riguarda solo il c.d. “dirigente apicale” e non il c.d. “pseudo dirigente” (cfr., tra le molte, Cass. 2 ottobre 2018, n. 23894): quest'ultimo, se licenziato nel periodo dal 17 marzo al 16 agosto 2020, potrebbe impugnare il recesso eccependone l'illegittimità per violazione del divieto di cui all'art. 46, previa dimostrazione della qualifica non dirigenziale;
- i lavoratori che vengono assunti dall'impresa appaltatrice subentrante: nei casi di cambio di appalto, l'art. 46 consente l'avvio di procedure di licenziamento collettivo riguardante i lavoratori precedentemente impiegati nell'appalto e assunti dal nuovo appaltatore in forza di norme di legge o di contratto. Sembrerebbe, invece, vietato il licenziamento individuale di detti lavoratori. Quindi, se questo fosse l'intento del legislatore, in caso di subentro nell'appalto, qualora l'impresa subentrante dovesse assumere quattro dipendenti precedentemente impiegati nell'appalto, il licenziamento individuale per giustificato motivo non sarebbe possibile; viceversa, se i dipendenti fossero cinque o più – con il conseguente obbligo di ricorrere alla procedura di licenziamento collettivo - il nuovo appaltatore potrebbe licenziare.


Tra le tipologie di licenziamento che si sottraggono al divieto rientrano:
- il licenziamento per motivi disciplinari (per giusta causa e giustificato motivo soggettivo). Non possono però essere licenziati, ai sensi dell'art. 23, co. 6 del Decreto “Cura Italia”, i lavoratori con figli di età compresa tra i 12 e i 16 anni, che si astengono dal lavoro senza retribuzione nel periodo di sospensione dei servizi educativi per l'infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado;
- i l licenziamento per superamento del periodo di comporto, in quanto trattasi di ipotesi riconducibile all'art. 2110 cod. civ. Sul punto, si deve ricordare che, ai sensi dell'art. 26, co. 1, del Decreto “Cura Italia”, il periodo di assenza trascorso in quarantena domiciliare per COVID 19 non è utile ai fini del comporto;
- il licenziamento per scarso rendimento, che ha natura disciplinare quando si basi sui risultati del lavoratore comparati con criteri individuabili ed oggettivi (cfr. Cass. 5 dicembre 2018, n. 31487).


E', invece, dubbio se debba o meno considerarsi vietato il licenziamento per inidoneità sopravvenuta alla mansione: si tratta di un licenziamento che, da un lato, non dipende da ragioni economiche oggettive, ma da incapacità sopravvenuta del lavoratore che giustifica il recesso ai sensi dell'art. 1464 cod. civ. sul presupposto della mancanza di interesse alla prestazione; dall'altro lato, però, implica un'incompatibilità del lavoratore con l'organizzazione e la produttività aziendale riconducibile al giustificato motivo oggettivo di cui all'art. 3, L. n. 604. A maggior ragione questa conclusione potrebbe ritenersi corretta se si considera che in caso di licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione, i datori di lavoro aventi i requisiti dimensionali di legge sono obbligati ad esperire il tentativo di conciliazione di cui all'art. 7, L. n. 604/1966. Se si accogliessero questi ultimi rilievi, dunque, il divieto di licenziamento dovrebbe ritenersi applicabile anche a questo tipo di risoluzione. È, invece, espressamente vietato il licenziamento quando l'inidoneità alla mansione sia accertata nell'ambito dell'eccezionale sorveglianza sanitaria prevista dall'art. 83 del Decreto “Rilancio”, ai fini di tutela dei lavoratori che siano maggiormente esposti al rischio di contagio da coronavirus per ragioni di età, di condizioni di immunodepressione, anche correlata alla patologia Covid19 o ad esiti di patologie oncologiche o allo svolgimento di terapie salvavita, o, comunque, da comorbilità.


Infine, sotto il profilo sanzionatorio, accanto a chi sostiene che il licenziamento sarebbe solo inefficace sino alla fine del periodo di interdizione, per i più l'inosservanza del divieto di licenziamento determinerebbe la nullità del recesso per violazione di norme imperative. In tal caso, la sanzione applicabile sarà, dunque, quella di cui all'art. 18, co. 1, L. n. 300/1970 ovvero, in caso di licenziamento di lavoratori assunti successivamente al 7 marzo 2015, quella di cui all'art. 2, co. 1, D. Lgs. n. 23/2015. In entrambe le ipotesi, conseguirà l'obbligo della reintegrazione e della corresponsione al lavoratore di un'indennità pari alla retribuzione decorrente dal licenziamento all'effettiva reintegrazione, con la garanzia di un minimo di 5 mensilità, oltre all'obbligo di pagare i contributi previdenziali e assistenziali.