Penale

Dichiarazione infedele e ruolo delle presunzioni tributarie

La cessione senza fattura può integrare la fattispecie preveduta e punita nell'articolo 4 della legge penale tributaria, dal momento che tale fattispecie punisce sia le condotte di annotazione di corrispettivi (ricavi) in misura inferiore rispetto a quella realmente conseguita che le sottofatturazioni e le mancate fatturazioni

di Mattia Miglio, Paolo Comuzzi

Con la sentenza che qui si pubblica, la Suprema Corte fornisce importanti spunti di riflessione in merito ai presupposti della fattispecie di dichiarazione infedele ex art. 4 Dlgs 10 Marzo 2000 n.74.

Come si può leggere, la pronuncia in esame conferma la sentenza di condanna della Corte di Appello di Palermo che aveva condannato l'odierno imputato per aver dato "disposizioni ai dipendenti di effettuare vendite senza operare la relativa fatturazione" e quindi alterato "la contabilità in modo tale da trarre in inganno … l'amministratore giudiziario …".

Avverso la pronuncia, la difesa rilevava che la condanna aveva trovato il suo fondamento logico sulla scorta di mere presunzioni che - in quanto tali - possono certamente valere come indizi ma restano del tutto inidonee a fondare una sentenza di condanna per reati tributari.

Nel caso che ci occupa, l'utilizzo delle presunzioni tributarie avrebbe comportato - secondo il ricorrente - il superamento della soglia di punibilità prevista dall'articolo 4 della normativa penale tributaria.

Nel respingere le censure mosse dal ricorrente, la Suprema Corte prende le mosse dagli elementi fattuali emersi in sede processuali, i quali avevano evidenziato (come da verifica fiscale e risultanze testimoniali) che l'imputato aveva dato precise indicazioni ai dipendenti di procedere con vendite senza emissione di documentazione fiscale.

Ciò posto, non sembrano esservi dubbi che tale comportamento (cessione senza fattura) possa integrare la fattispecie preveduta e punita nell'articolo 4 della legge penale tributaria, dal momento che tale fattispecie punisce sia le condotte di annotazione di corrispettivi (ricavi) in misura inferiore rispetto a quella realmente conseguita che le sottofatturazioni e le mancate fatturazioni. Anche questi sono comportamenti che sembrano rientrare nella fattispecie in esame: "il caso appartiene all'ipotesi di indicazione di componenti positivi di reddito in misura inferiore a quella reale per effetto della vendita di beni senza fatturazione cioè "in nero".

Quanto ai profili concernenti l'imposta evasa, si legge poi che è certamente vero che le presunzioni tributarie non possono costituire di per sé sole fondamento di una condanna in sede penale (le presunzioni non possono costituire di per sé fonte di prova); tuttavia, le presunzioni sono comunque elementi liberamente apprezzabili dal giudice penale che può certamente valutarle per trarne elementi atti a fondare il suo convincimento obiettivo.

Nel caso di specie, si legge, la sentenza della Corte di Appello ha applicato un metodo analitico - induttivo per la determinazione dei ricavi non fatturati e quindi ha compiuto un percorso argomentativo fondato su elementi di fatto - e non su mere presunzioni - che hanno portato ad una determinazione del valore di ricarico e quindi della imposta evasa (Ires e IVA).

Nella determinazione del quantum imponibile e della conseguente imposta evasa è quindi lecito per la Corte di Cassazione fare riferimento agli accertamenti condotti dalla Guardia di Finanza (questo appare come un principio ormai consolidato): tale valutazione deve tuttavia essere critica e comprendere ogni altro elemento acquisito nel corso dell'attività dal momento che l'autonomia del processo penale rispetto a quello tributario - pur non escludendo che, ai fini della formazione del suo convincimento, il giudice penale possa avvalersi degli stessi elementi che determinano presunzioni ai fini fiscale - deve farlo aggiungendo ulteriori elementi in modo che dette presunzioni da meri indizi si trasformino in prove.

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