Lavoro

Discriminata: mancato rinnovo perché in gravidanza

Unica lavoratrice di un gruppo di somministrati a non essere richiamata

di Giampiero Falasca

È discriminatoria la scelta di non rinnovare un contratto di somministrazione collegato alla missione di una donna in gravidanza, qualora questa persona, all’interno di un gruppo più ampio di lavoratori, sia l’unica che non riceve la proposta di rinnovo. Con questa decisione, sicuramente innovativa, il Tribunale di Roma (ordinanza del 22 aprile 2021), al termine della speciale procedura anti discriminatoria prevista dal Dlgs 216/2003, condanna un ente pubblico a risarcire il danno (pari ai mancati guadagni che avrebbe conseguito) subito da una lavoratrice somministrata.

Quest’ultima ha lamentato di aver subito una discriminazione al momento della scadenza del periodo di impiego, come somministrata, in quanto è stata l’unica all’interno di un significativo gruppo (44 colleghi), a cui non è stata prorogata o rinnovata la missione alla fine del contratto; mancato rinnovo che si è verificato in concomitanza col suo stato di gravidanza.

Secondo la lavoratrice, questa condotta ha integrato una evidente forma di discriminazione diretta legata al genere - in particolare, alla maternità - o, in subordine, una forma di discriminazione di carattere indiretto.

Il Tribunale ha accolto tale ricostruzione, osservando innanzitutto che la questione non attiene alla sussistenza di un diritto soggettivo al rinnovo della missione a termine (diritto che non esiste), ma riguarda la sussistenza di una discriminazione legata al fatto che il rinnovo di un contratto viene offerto a tutti i colleghi tranne a una persona che si trova in gravidanza.

Secondo il Tribunale, per evitare l’accusa di discriminazione diretta, il presunto autore deve dimostrare che il comportamento adottato persegua una finalità legittima e che i mezzi scelti per conseguire tale finalità siano proporzionati e necessari; in altri termini, deve dimostrare che la differenza di trattamento si basi su dati oggettivi, estranei al motivo che forma oggetto del divieto.

Nel caso esaminato, il Tribunale rileva l’assenza di qualsivoglia intento discriminatorio, ed esclude quindi la sussistenza di una discriminazione diretta. Questo accertamento non basta ad assolvere del tutto l’utilizzatore, in quanto lo stesso Tribunale riscontra l’oggettiva idoneità del comportamento tenuto dall’ente a ledere la parità di trattamento della lavoratrice. Lesione che, secondo il Tribunale, può verificarsi anche senza la consapevolezza dell’autore o il suo intento lesivo, essendo sufficiente che sia un effetto della sua condotta (lettura, questa, coerente con la nozione comunitaria di discriminazione indiretta).

Sulla base di tale ricostruzione, viene riconosciuto alla ricorrente il risarcimento del danno, in misura pari alle retribuzioni perse dalla data della cessazione della astensione obbligatoria sino alla data alla quale gli altri rapporti di lavoro dei colleghi sono stati prorogati.

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