Famiglia

Divorzio, non basta rifiutare dei colloqui di lavoro per perdere l’assegno

Per la Cassazione non è un elemento decisivo per decidere sulla capacità lavorativa

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di Giorgio Vaccaro

Non perde l’assegno divorzile il coniuge che si rifiuta di svolgere colloqui presso dei posti di lavoro. Lo ha stabilito l’ordinanza 289 del 12 gennaio 2021 con la quale la Cassazione ha respinto il ricorso, presentato dall’ex marito, contro la sentenza della Corte d’appello di Genova, che aveva confermato, pur riducendolo, l’assegno divorzile in favore della ex moglie.

La Cassazione ha osservato, confermando in merito il proprio costante orientamento, come non possano essere accolte le doglianze che - deducendo un omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti – si sostanzino di fatto a dedurre l’omesso esame da parte del giudicante del merito circa il fatto che la ex moglie avrebbe avuto «piena capacità lavorativa e, nonostante ciò, si sarebbe sempre resa indisponibile su base volontaria a reperire tale attività, trasferendo il centro dei propri interessi in Francia quando ancora, in corso di separazione, aveva l’assegnazione della casa coniugale, non presentandosi al centro per l’impiego e rifiutandosi di svolgere colloqui lavorativi presso posti di lavoro».

Da tali omissioni, il ricorrente faceva discendere la decadenza dell’ex moglie dal diritto di percepire l’assegno divorzile e il conseguente sorgere dell’onere per il contributo al mantenimento del figlio.

La Cassazione dichiara l’inammissibilità del ricorso. Per i Supremi giudici, infatti, la Corte d’appello si è soffermata sul fatto controverso della capacità lavorativa della ex, affermata dal marito e negata dalla donna, osservando che «pur non essendo realistico pensare che oggi, a 53 anni, possa utilmente e proficuamente inserirsi nel mondo del lavoro, non vantando neppure alcuna specifica esperienza pregressa, tuttavia occorre valutare la circostanza che la stessa si sia trasferita spontaneamente a Parigi, dove, pur potendo contare sugli aiuti di amici e di parenti, è lecito supporre svolga anche saltuarie attività lavorative, per provvedere al proprio sostentamento». In questo quadro, il rifiuto della ex moglie , riferito dall’ex marito, di presentarsi a un colloquio di lavoro, circostanza contestata dall'interessata, non può, di per se stesso, costituire prova di una specifica capacità lavorativa. Di conseguenza non può costituire un elemento decisivo dall’omesso esame del quale far discendere la cassazione della pronuncia.

In altre parole, la Cassazione rileva come «appare manifesto che detta mancata presentazione decisiva non è affatto, giacché non ricorre alcuna implicazione necessaria tra essa e l’effettiva sussistenza della capacità lavorativa» in capo alla moglie, così come immaginata dal marito.

La Cassazione ha respinto il ricorso anche sull’ulteriore punto proposto dall’ex marito, relativo alla diversa ripartizione delle spese. Di qui la condanna del ricorrente a sostenere per intero le spese processuali e a pagare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello già versato per il ricorso, in base all’articolo 13, comma 1-quater, del Dpr 115 del 2002.

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