Responsabilità

Errore medico rilevante, il danno da perdita della capacità lavorativa si presume (anche per il minore)

Lo ha stabilito la Corte di cassazione, ordinanza n. 27353 depositata oggi, affermando che in caso di postumi permanenti il giudice può liquidare il danno presunto in via equitativa

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di Francesco Machina Grifeo

A fronte di un errore medico, anche commesso alla nascita, che abbia prodotto postumi permanenti in grado di incidere sulla futura capacità lavorativa, e dunque di guadagno, il giudice può accertare in via presuntiva la perdita patrimoniale che patirà la vittima e procedere alla sua valutazione in via equitativa. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, ordinanza n. 27353 depositata oggi, accogliendo il ricorso di una donna che a causa della accertata condotta negligente, durante il parto, del personale dell’Asl di Reggio Calabria, aveva subito un danno biologico permanente del 25% (grave deficit di sviluppo dell’arto sinistro, nonché anisometria miopica dell’occhio sinistro).

In primo grado ed in appello, la domanda di risarcimento era stata accolta limitatamente al danno biologico e liquidata in 220mila euro mentre era stata rigettata l’ulteriore richiesta di danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa. Per i giudici di merito trattandosi di un «minore non percettore di reddito», sussisteva «un’incertezza sulla qualificazione e quantificazione delle varie voci di danno non superabile se non con una prova particolarmente rigorosa». Mentre «la sola dimostrazione dell’esistenza di postumi invalidanti non [era] sufficiente a far presumere anche la perdita della possibilità di futuri guadagni o di futuri maggiori guadagni, spettando al danneggiato l’onere di provare, anche presuntivamente, che il danno alla salute gli [aveva] precluso l’accesso a situazioni di studio o di lavoro tali che, se realizzate, avrebbero fornito anche soltanto la possibilità di maggiori guadagni». Al di là dei meri rilievi peritali in ordine alla circostanza che alla ragazza «piaceva studiare» non erano state infatti provate particolari “inclinazioni o aspirazioni lavorative” della danneggiata né quelle dei genitori “che avrebbero potuto esserle trasmesse”, né tantomeno era stato dedotto e provato l’impedimento allo svolgimento regolare di uno specifico lavoro.

Una impostazione radicalmente bocciata dalla Terza sezione civile secondo la quale a fronte di un’accertata invalidità permanente “nella elevata misura del 25%”, le considerazioni svolte nella sentenza impugnata “esprimono una sostanziale obliterazione del forte rilievo indiziario che occorre invece attribuire, anche sul versante del danno reddituale, al primo dato, e dà in effetti riscontro ai denunciati vizi motivazionale e di violazione di legge”.

La Suprema corte, infatti, ha da tempo affermato il principio secondo cui «nei casi in cui l’elevata percentuale di invalidità permanente rende altamente probabile, se non addirittura certa, la menomazione della capacità lavorativa ed il danno che necessariamente da essa consegue, il giudice può procedere all’accertamento presuntivo della predetta perdita patrimoniale, liquidando questa specifica voce di danno con criteri equitativi”. E “la liquidazione di detto danno può avvenire attraverso il ricorso alla prova presuntiva, allorché possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’infortunio».

In un caso assimilabile a quello in esame, la Cassazione ha, infatti, affermato che il danno da riduzione della capacità di guadagno subìto da un minore in età scolare, in conseguenza della lesione dell’integrità psico-fisica, può essere valutato attraverso il ricorso alla prova presuntiva allorché possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro il danneggiato percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’evento lesivo, tenendo conto delle sue condizioni economico-sociali, di quelle della sua famiglia e di ogni altra circostanza del caso concreto (Cass. n. 11750/2018).

Pertanto, afferma la Corte, ove l’elevata percentuale di invalidità permanente renda altamente probabile, se non certa, la menomazione della capacità lavorativa ed il danno ad essa conseguente, il giudice può accertare in via presuntiva la perdita patrimoniale occorsa alla vittima e procedere alla sua valutazione in via equitativa.

Al contrario, conclude l’ordinanza, la Corte d’appello, nel pretendere la prova rigorosa della compromissione della capacità di guadagno da parte di una persona che non aveva ancora raggiunto l’età lavorativa e nel togliere ogni rilievo all’avvenuto definitivo accertamento, a suo carico, di postumi invalidanti di grado pari al 25% a fronte di una malformazione che limitava l’uso degli arti superiori, per un verso ha gravato la danneggiata dell’onere di una dimostrazione eccessivamente difficoltosa, per l’altro – e principalmente – ha trascurato totalmente il rilevantissimo valore presuntivo del danno biologico, accertato in misura rilevante, rispetto al presumibile danno alla capacità lavorativa.

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