Finanziamento illecito ai partiti, sindaco escluso
I divieti sul finanziamento illecito ai partiti politici non si applicano al sindaco, o al candidato sindaco e far rientrare anche questa figura nell’ambito applicativo della legge costituisce una forzatura.
Lo ha chiarito la Cassazione, con la sentenza 28045 depositata ieri. Sotto la lente il caso di un aspirante primo cittadino alle elezioni amministrative di Lucca del 2007, accusato di aver ottenuto dal presidente di una cooperativa un contributo di 3200 euro per la fornitura di volantini elettorali a sostegno di una lista civica apparentata - in vista del ballottaggio - con la sua, senza che l’organo sociale avesse deliberato in tal senso e senza che la quota figurasse nel bilancio della società.
Dichiarato dal Tribunale di Lucca (insieme con il presidente della cooperativa e con un terzo attore) «penalmente responsabile per illecito finanziamento dei partiti politici», l’imputato si era poi visto ridurre la pena a sette mesi di reclusione e seimila euro di multa.
Immediato il ricorso in Cassazione, con la riproposizione di un tema destinato a far breccia nei giudici: la scorretta interpretazione analogica in malam partem, applicata dalla Corte territoriale alle norme che regolano la materia del finanziamento illecito ai partiti. Una interpretazione - stigmatizza la Suprema Corte - non consentita dal sistema.
La tesi accusatoria su cui si fonda la condanna, nasce dal combinato disposto di due norme. La prima (legge 195/1974) vieta finanziamenti o contributi da parte della Pa, di enti pubblici, di società con partecipazione di capitale pubblico sopra il 20 per cento o di società controllate da queste ultime a favore di partiti politici o di gruppi parlamentari. Lo stesso divieto vale per tutte le altre società, salvo che tali finanziamenti siano stati deliberati dall’organo sociale competente e regolarmente iscritti in bilancio.
La seconda norma presa come riferimento, la legge 659/1981, è intervenuta sulla precedente, estendendo il divieto ai membri del Parlamento nazionale, del Parlamento europeo, ai consiglieri (o candidati) regionali, provinciali e comunali, ai raggruppamenti interni dei partiti politici e a coloro che rivestono cariche di presidenza, di segreteria, di direzione politica e amministrativa a livello regionale, provinciale e comunale nei partiti politici.
Dal combinato disposto delle due norme emerge chiaramente l’assenza del sindaco «nè tale operazione ermeneutica - si legge nella sentenza - può giustificarsi sulla base di una altrettanto arbitraria, apodittica e irragionevole equiparazione tra la carica di consigliere comunale e quella di sindaco».
Condanna annullata, dunque, perchè il fatto non sussiste.
Corte di Cassazione – Sezione III penale – Sentenza 7 giugno 2017, n. 28045