Famiglia

Fine della convivenza, la casa al figlio non esonera dall'assegno

Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 663 depositata oggi, rigettando il ricorso del papà

di Francesco Machina Grifeo

A seguito della cessazione della convivenza, il trasferimento al figlio della proprietà di un immobile non mette al riparo il genitore dal versamento dell'assegno di mantenimento. E ciò anche se c'era stato accordo tra le parti e le condizioni economiche sono rimaste immutate. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 663 depositata oggi, rigettando il ricorso del papà ed affermando un principio di diritto.

In primo grado, invece, il Tribunale di Cosenza aveva dichiarato inammissibile la domanda della madre volta ad ottenere il mantenimento per il figlio (nato nel maggio del ‘99 dalla convivenza more uxorio col convenuto), considerato il mancato mutamento delle condizioni economiche successivamente alla stipula, il 30/10/2012, di un accordo in forza del quale il padre aveva trasferito al figlio la proprietà di un immobile, ottenendo in cambio l'esonero da obblighi di contribuzione «salve spese scolastiche e di abbigliamento». Il giudice si limitò a precisare che il resistente doveva contribuire alle spese di vestiario ed a quelle straordinarie sostenute dalla ricorrente per il figlio, documentate e concordate, nella misura del 50%.

La Corte d'appello di Catanzaro, tuttavia, in accoglimento del reclamo proposto dalla donna, stabilì che il padre era tenuto a contribuire al mantenimento del figlio anche con un assegno mensile di 250,00 euro. E ciò perché l'accordo negoziale del 2012, "trascendendo dagli interessi disponibili delle parti", era inefficace in mancanza di un controllo giudiziario - del tipo di quello che interviene in sede di omologazione della separazione consensuale o di divorzio a seguito di istanza congiunta – necessario a verificarne la conformità all'interesse morale e materiale del figlio.

Proposto ricorso, la Suprema corte lo ha rigettato. In sostanza, spiega la decisione, l'accordo, benché valido, e pure in assenza di un sopravvenuto mutamento delle condizioni economiche dei genitori, non preclude al giudice che sia chiamato a valutarne la rispondenza agli obblighi di mantenimento del figlio, e che lo reputi inidoneo o insufficiente allo scopo, di integrarlo e/o di modificarlo. E nell'operare tale valutazione il giudice deve ispirarsi al criterio fondamentale dell'esclusivo interesse morale e materiale della prole (art. 337 ter, 2° co., cod. civ.). Sicché, prosegue la decisione, l'adozione dei provvedimenti ritenuti opportuni non solo non incontra i limiti processuali ( costituiti dal dovere di rispetto del principio della domanda e del principio dispositivo) di cui all'art.112 cod. proc. civ., "ma, a maggior ragione, non può ritenersi subordinata alla salvaguardia dei patti liberamente stipulati dai genitori nell'esercizio della loro autonomia negoziale, il cui contenuto e la cui congruità formano per l'appunto oggetto di delibazione".

«In tema di mantenimento dei figli nati da genitori non coniugati – scrive in conclusione la Cassazione dettando un principio di diritto -, alla luce del disposto di cui all'art.337 ter quarto comma c.c., anche un accordo negoziale intervenuto tra i genitori non coniugati e non conviventi, al fine di disciplinare le modalità di contribuzione degli stessi ai bisogni e necessità dei figli, è riconosciuto valido come espressione dell'autonomia privata e pienamente lecito nella materia, non essendovi necessità di un'omologazione o controllo giudiziale preventivo; tuttavia, avendo tale accordo ad oggetto l'adempimento di un obbligo ex lege, l'autonomia contrattuale delle parti assolve allo scopo solo di regolare le concrete modalità di adempimento di una prestazione comunque dovuta ed incontra un limite, sotto il profilo della perdurante e definitiva vincolatività fra le parti del negozio concluso, nell'effettiva corrispondenza delle pattuizioni in esso contenute all'interesse morale e materiale della prole».

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