Gli ostacoli sulla via dell’equa riparazione
I nuovi ostacoli sono statti introdotti dal legislatore con la speranza che il creditore preferisca rinunciare alla propria pretesa, mandando così esente l'erario da questa posta passiva.
Il quadro normativo - Bisogna partire da un presupposto: il decreto della Corte d'appello, almeno nell'originaria intenzione del legislatore, doveva funzionare come una vera e propria ingiunzione nei confronti dell'amministrazione della giustizia, alla quale adempiere senza indugio. Chiaro è (era) il dettato dell'articolo 3, comma 5, della legge n. 89 del 2001: «Se accoglie il ricorso, il giudice ingiunge all'amministrazione contro cui è stata proposta la domanda di pagare senza dilazione la somma liquidata a titolo di equa riparazione, autorizzando in mancanza la provvisoria esecuzione»: si tratta, dunque, di un titolo di pagamento immediatamente esecutivo. E invece, anzitutto, la giurisprudenza ha ritenuto applicabile a questa disciplina l'articolo 14, comma 1, del decreto legge n. 669 del 1996, convertito dalla legge n. 30 del 1997, a norma del quale sono concessi all'amministrazione debitrice ben 120 giorni (pari a 4 mesi!) per completare le procedure di esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali pur aventi efficacia esecutiva e che comportano l'obbligo di pagamento di somme di denaro: solo alla scadenza dei 120 giorni, per espresso dettato di legge, sarà quindi possibile azionare il giudizio esecutivo, ivi compreso – secondo la giurisprudenza – quello di ottemperanza.
Dunque, e per tornare al giudizio di equa riparazione: ottenuto il decreto della Corte d'appello, pur se immediatamente esecutivo, il creditore dovrà notificarlo all'amministrazione e attendere ben 120 giorni prima di poter (eventualmente) azionare il rimedio dell'ottemperanza dinnanzi al Tar.
Gli ulteriori adempimenti - Ma adesso il nuovo articolo 5-sexies della legge n. 89 del 2001 (introdotto, appunto, dalla legge di stabilità 2016) onera il creditore di ulteriori adempimenti.
Si prevede, anzitutto, che per poter ottenere il pagamento delle somme liquidate, il creditore dovrà rilasciare all'amministrazione debitrice una dichiarazione, da rendersi nelle forme di cui agli articoli 46 e 47 del Dpr n. 445 del 2000, nella quale si attesti «la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo, l'esercizio di azioni giudiziarie per lo stesso credito, l'ammontare degli importi che l'amministrazione è ancora tenuta a corrispondere (e) la modalità di riscossione prescelta». Davvero curioso questo adempimento: il creditore deve informare il debitore di qualcosa che ben è a conoscenza di quest'ultimo, ossia del fatto che il credito non è ancora stato riscosso e che è pendente un'azione giudiziaria per il suo pagamento.
Peraltro, la dichiarazione deve essere resa non in forme liberamente scelte dal creditore, ma secondo modelli che dovranno essere approvati dalla stessa amministrazione debitrice (il ministero della Giustizia, in accordo con il ministero dell'Economia: così il comma 3) ovvero, nelle more di tale approvazione, mediante modelli già reperibili sui siti istituzionali delle singole amministrazioni (comma 12).
Oltre a questa dichiarazione, inoltre, il creditore dovrà recapitare all'amministrazione l'ulteriore «documentazione necessaria» a dar corso al pagamento (così il comma 1), documentazione che spetterà ancora ai ministeri della Giustizia e dell'Economia stabilire con appositi decreti (comma 3). Se la dichiarazione non viene compiuta, «l'ordine di pagamento non può essere emesso» (così il comma 4 dell'art. 5-sexies). Addirittura si stabilisce (comma 2) che questa dichiarazione ha una validità temporanea – vale solo sei mesi – e deve pure essere rinnovata a semplice richiesta dell'amministrazione (dunque, anche in pendenza del periodo di validità semestrale). Nell'ipotesi in cui il creditore effettui la dichiarazione, peraltro, si concede all'amministrazione un ulteriore spatium deliberandi pari a 6 mesi per effettuare il pagamento (comma 5).
Una situazione paradossale - Siamo dunque in presenza di una situazione che, dal punto di vista del creditore, e nell'ordinario rapporto civilistico di credito-debito, non potrebbe che essere definita paradossale, nella quale – detto in poche parole – la legge fa di tutto per ritardare il diritto del cittadino all'equa riparazione: ciò, come è evidente, in barba ai postulati della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (che pure dovrebbe costituire il fondamento del diritto di cui alla Legge Pinto) e non senza evidenti contraddizioni interne alla stessa legge n. 89 del 2001. Come detto, quest'ultima dapprima disegna l'obbligo per l'amministrazione debitrice nei sensi di una vera e propria ingiunzione di pagamento e la obbliga a pagare “senza dilazione” una volta emesso il decreto della Corte d'appello (così l'articolo 3, comma 5); ma poi si assoggetta la procedura di liquidazione all'adempimento di plurimi e defatiganti oneri da parte del creditore (articolo 5-sexies), così ritardando la prestazione dovuta, nonostante l'esistenza dell'ordine del giudice, e quindi finendo col vanificare la portata immediatamente precettiva di quest'ultimo. Tuttavia è anche evidente – se si sposta la prospettiva dal lato dell'amministrazione debitrice – che la legge, in realtà, ha voluto proteggere le già disastrate finanze pubbliche: e però questo viene fatto non già curando i mali alla radice (ossia, predisponendo un servizio-giustizia più celere ed efficace) ma intervenendo al capezzale del malato, ossia cercando vilmente di dissuadere, per quanto possibile, l'esecuzione delle condanne.