Penale

Il “caporalato” non si applica alla categoria degli insegnanti

La Cassazione, sentenza n. 43662 depositata oggi, ricorda che il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro nasce in ambito agricolo e non può essere applicato al lavoro intellettuale

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di Francesco Machina Grifeo

La fattispecie punita dall’articolo 603-bis del codice penale, ovvero l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro, non può essere applicata anche alle prestazioni intellettuali. La norma infatti nasce per combattere il “caporalato” nel settore agricolo e non può essere estesa per analogia. Del resto, nè l’intelletto nè il suo uso professionale possono essere ricondotti alla nozione di sfruttamento della “manodopera”. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 43662 depositata oggi, accogliendo il ricorso della presidente del Cda di una società cooperativa, attiva nella istruzione secondaria, contro la misura cautelare degli arresti domiciliari (comminatale anche per il reato di estorsione).

Il Tribunale di Roma, in sede di riesame, aveva confermato la decisione del Gip secondo cui l’imputata avrebbe sottoposto i lavoratori a condizioni di sfruttamento approfittando dello stato di bisogno, nonché costretto alcuni di loro a restituire la retribuzione o ancora a lavorare sottopagati con la minaccia di non riassumerli. Tutto ciò in concorso con il Preside, la Segretaria e altri due responsabili degli istituti gestiti dalla cooperativa.

Per dirimere la questione della applicabilità del reato previsto e punito dall’articolo 603-bis c.p. ad una simile caso, scrive la Corte, si deve guardare alla genesi della norma introdotta con un Dl (articolo 12 Dl 13 agosto 2011, n. 138, convertito poi dalla legge 14 settembre 2011, n. 148) come risposta al “sempre più allarmante fenomeno del caporalato agricolo soprattutto nelle campagne meridionali, che aveva dato luogo, quale immediato antefatto, allo sciopero dei lavoratori migranti occupaticome braccianti nell’area di Nardò”. Inizialmente, la norma era strutturata solo sulla fattispecie specifica dell’intermediazione illecita. A distanza di cinque anni, con una disposizione inserita in una legge dedicata al settore agricolo (articolo 1, legge 199/2016) venne poi ampliata per ricomprendervi anche le condotte di chi direttamente “utilizza, assume o impiega manodopera sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”.

Tuttavia, prosegue l’ordinanza, la norma non può essere estesa “per punire fattispecie originariamente non ipotizzate dal legislatore”. “Vi ostano non tanto il divieto di interpretazione analogica nel settore penale, quanto la collocazione della disposizione ed il testo stesso della norma”. La disposizione, infatti, è stata introdotta da una legge mirata al “contrasto ai fenomeni dello sfruttamento del lavoro in agricoltura” ed è inserita in un tessuto normativo costituito da reati come la riduzione in schiavitù, la tratta di persone, il traffico di organi prelevati da persone vive (oltre che prostituzione e pornografia minorile), vale a dire reati che colpiscono, su una scala elevatissima, la “personalità” individuale, fino al punto di annullarla.

Infine, il dato testuale preclude l’applicazione della norma a categorie di lavoro che avvalendosi di prestazioni intellettuali, “esulano in radice dalla categoria dei lavori manuali, siano essi in ambito agricolo o artigianale o industriale”. La norma, infatti, si riferisce al reclutamento o all’utilizzazione di ’manodopera’, termine semanticamente legato alla manualità e generalmente alla prestazione di lavoro privo di qualificazione, “nome collettivo all’interno del quale l’individuo e le sue capacità perdono significato a fronte della potenzialità produttiva che il gruppo di lavoratori può esprimere”. Tutto ciò è estraneo al lavoro intellettuale, tanto se esercitato in forma subordinata che nella libera professione, poiché “l’intelletto ed il suo uso costituiscono elemento identitario ed individualizzante che non può essere svilito, disperdendolo nella categoria generica della manodopera”.

Né paiono soddisfatti gli elementi costitutivi dello stato di bisogno e dello sfruttamento dei lavoratori. Sotto il primo aspetto, si ritiene che non vada oltre la generica considerazione sociologica, inutilizzabile in questa sede per la sua vaghezza, l’identificazione dello stato di bisogno nel ’generale contesto di crisi occupazionale’. Quanto allo sfruttamento delle vittime del reato, il Tribunale avrebbe dovuto verificare, alla luce dell’orario giornaliero estremamente contenuto ed alla circostanza che ai fini del punteggio conti il numero delle giornate lavorative a dispetto delle ore di servizio, “se, come si allude nel ricorso, la sottoscrizione dei contratti non corrispondesse ad una scelta di opportunità dei singoli docenti, attratti dalla prospettiva di acquisire punteggio a fronte di un impegno lavorativo minimale se non simulato”.

La Cassazione ha dunque annullato l’ordinanza impugnata quanto al reato di intermediazione e sfruttamento. Ha invece rinviato al tribunale di Palermo per un nuovo giudizio quanto alle esigenze cautelari per il reato di estorsione. Non è infatti corretta la tesi difensiva secondo cui il reato va escluso per il solo fatto che i docenti fossero perfettamente consapevoli delle condizioni contrattuali. Su quest’ultimo punto, la Cassazione ricorda che recentemente si è ribadito che integra il delitto di estorsione la condotta di chi, avendo la possibilità di intervenire sul rinnovo dei contratti a termine dei dipendenti di una cooperativa, per costringere questi ultimi a soddisfare richieste illecite, minacci di interferire negativamente sulla decisione di rinnovare tali contratti, senza che ciò trovi alcuna giustificazione sul piano delle scelte aziendali.

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