Il curatore rischia la condanna per falso ideologico
Rischia la condanna per falso ideologico il curatore fallimentare che, nella sua relazione, si discosta dai principi pacifici, affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di reati fallimentari. L’attività del curatore non può, infatti, essere considerata del tutto discrezionale e dunque fuori dal raggio d’azione dell’articolo 479 del Codice penale che punisce il falso ideologico, affermato dal pubblico ufficiale.
La Corte di cassazione, con la sentenza 97 del 3 gennaio, respinge sul punto il ricorso del curatore, del quale però non considera provata la responsabilità, annullando la sentenza di condanna con rinvio. L’accusa era di aver escluso l’esistenza di una bancarotta distrattiva. Per la Corte d’appello una conclusione raggiunta malgrado le prove di cessioni fittizie e dell’incapienza patrimoniale della compagine coinvolta.
La Cassazione chiarisce che il curatore fallimentare si deve muovere nel solco tracciato, in modo consolidato, dalla giurisprudenza di legittimità per quanto riguarda i reati fallimentari; in caso contrario dovrà dare conto del percorso logico-ricostruttivo che ha seguito e che lo ha portato ad esiti diversi.
L’onere si giustifica alla luce della complessità e della poliedricità del ruolo giocato dal curatore, che sintetizza in sé più profili professionali, anche in virtù della diversità degli interlocutori istituzionali di riferimento: dal giudice delegato al pubblico ministero, fino agli altri organi del fallimento.
Con la conseguenza che il disattendere in maniera ingiustificata e senza una spiegazione plausibile gli orientamenti fermi della Suprema corte, diventa un elemento valutabile, con il concorso di altri indizi univoci, coerenti e concordanti della sussistenza del delitto di falso ideologico in riferimento all’articolo 33 della legge fallimentare. Una norma che impegna il curatore a presentare una relazione particolareggiata sugli atti del fallito. Atto che deve contenere l’indicazione delle cause del fallimento, e una valutazione sulla diligenza del fallito nell’esercizio dell’impresa e sulla sua responsabilità anche ai fini penali.
I giudici respingono quindi il primo motivo del ricorso teso a dimostrare la discrezionalità dell’atto. Per il resto la Suprema corte accoglie e annulla con rinvio per una carenza di motivazione sulla responsabilità nel reato contestato.
Corte di cassazione, sentenza 97 del 3 gennaio 2020