Il diritto all’autodeterminazione di abortire può essere provato per presunzioni semplici
Ma la mancata diagnosi di una malformazione del feto non può far presumere da sé che la donna si sarebbe determinata a praticare l’aborto terapeutico se debitamente informata
La nascita di un figlio con una grave malformazione non individuata dai sanitari con l’esame ecografico morfologico non determina automaticamente il risarcimento della donna, per violazione del suo diritto all’autodeterminazione comprensivo dell’opzione di abortire. Ancor meno se la scelta risulta esercitabile quando sono stati già superati i 90 giorni di gravidanza. Ossia quando l’ordinamento consente l’interruzione di gravidanza solo per grave pericolo di vita della gestante o per un rilevante danno alla salute fisica o psichica della donna.
Non basta quindi la mancata rilevazione e comunicazione di una malformazione del feto a determinare la responsabilità dei medici con la conseguenza di dover risarcire il danno patrimoniale e non patrimoniale alla madre del bambino nato con un handicap, in astratto rilevabile con gli esami diagnostici. Ma va provato che la donna debitamente informata sulle condizioni di salute del feto si sarebbe determinata all’aborto. Inoltre, nel caso dell’aborto terapeutico va ulteriormente dimostrata la sussistenza del pericolo per la vita della gestante o l’insorgenza di un danno grave per la sua salute fisica/psichica in caso di nascita indesiderata. Non può quindi parlarsi di lesione del diritto all’autodeterminazione in caso di assenza dei presupposti di legge per l’aborto terapeutico.
E proprio l’assenza di tali elementi dimostrativi della sussistenza di un danno ingiusto la Corte di cassazione con la sentenza n. 1903/2025 ha accolto il ricorso dell’azienda sanitaria contro la condanna di secondo grado al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, con cui era stata ribaltata la decisione di primo rado che non aveva ravvisato un illegittimo comportamento colposo dei sanitari e aveva comunque escluso la lesione del diritto della donna a praticare l’aborto terapeutico di cui non si ravvisavano i presupposti in base all’articolo 6 della legge 194/1978. E neanche risultava provata correttamente la volontà della gestante di ricorrere all’interruzione della gravidanza, se fosse stata informata delle malformazioni del concepito.
Per quanto riguarda la responsabilità medica questa è stata esclusa a fronte della difficoltà tecnica di rilevare una malformazione fetale a livello della vescica: sia per la difficile individuazione ecografica dell’organo sia per la verificazione di molti falsi negativi in questo ambito diagnostico.
La Cassazione boccia quindi il ragionamento dei giudici di appello che invece di dimostrare la sussistenza del pericolo alla salute, fisico o psichico, attraverso presunzioni precise gravi e concordanti hanno dato rilievo alla considerazione comune di una “prevedibile” depressione cui sarebbe andata incontro la donna per aver partorito un figlio affetto da malformazione non diagnosticata. In effetti, la stessa Ctu voluta dai giudici di appello aveva escluso la responsabilità dell’Asl per la mancata rilevazione del problema vescicale, ma aveva comunque riconosciuto il risarcimento per violazione del diritto della donna alla propria autodeterminazione. Era, invece, indispensabile accertare una condizione di pericolo per la salute fisica o psichica della donna o per la sua sopravvivenza.
La Cassazione chiarisce - soprattutto in base a precedenti giurisprudenziali delle sezioni Unite civili - che è ammessa la prova anche presuntiva del fatto che la donna avrebbe fatto ricorso all’aborto terapeutico pure solo per il rischio di ricadute sul suo stato di salute a causa della nascita indesiderata. Ma l’odierna decisione sintetizza i principi di diritto che il giudice deve seguire per affermare che sia stata impedita la libera scelta della gestante, che non può essere solo apoditticamente affermata, ma va provata. Anche in base a elementi di fatto quali - ad esempio - testimonianze sull’intenzione pregressamente espressa dalla donna di procedere all’aborto in caso di malformazioni del nascituro.
L’aborto è sì riconosciuto dalla legge entro i primi tre mesi di gravidanza come - di fatto - una libera scelta, ma non per fini eugenetici come quelli che si potrebbero perseguire, in particolare, con quello cosiddetto “terapeutico” praticato dopo i 90 giorni di gestazione.
In conclusione, l’aborto terapeutico è posto a tutela della vita e della salute della madre e non come libera scelta o diritto del figlio a nascere sano. E comunque - va ribadito - l’interruzione dopo i novanta giorni di gravidanza può essere ottenuta solo dalla gestante che provi i presupposti richiesti dall’articolo 6 della 194 e la presunta volontà di abortire non può obliterare la loro non ricorrenza.