Casi pratici

Il patto di prova nel rapporto di lavoro, tra requisiti validanti e recedibilità ad nutum

Il patto di prova ex art. 2096 c.c.

di Paolo Patrizio


la QUESTIONE
Il patto di prova nel contratto di lavoro, quali requisiti per la sua valida stipulazione? Quali sono i presupposti ed i limiti dell'esercizio, da parte del datore di lavoro, del diritto di recesso nel corso o al termine del periodo di prova? Esiste un termine di impugnativa del licenziamento per mancato superamento del periodo di prova? Esiste uno spazio di sindacabilità, da parte del giudice, del licenziamento per mancato superamento del periodo di prova? Quali sono le conseguenze dell'illegittimità del licenziamento intimato durante o al termine del periodo di prova ?


Il patto di prova è un istituto pattizio di matrice contrattuale, disciplinato, in sede codicistica, dall'art. 2096 c.c. e finalizzato alla reciproca verifica, di entrambe le parti protagoniste del rapporto di lavoro, circa la convenienza della prosecuzione lavorativa, all'esito della concreta sperimentazione, in ottica prospettica, delle peculiarità, caratteristiche ed ambito del rapporto di lavoro instaurato tra le stesse.
In particolare ed in via di sintesi teleologica, l'istituto ha la fondamentale funzione lato di consentire, al datore di lavoro, di verificare in concreto le capacità professionali e di adattamento all'organizzazione produttiva del lavoratore in prova prima di renderne definitiva l'assunzione ed, al lavoratore, di comprendere l'esatta caratterizzazione della prestazione e delle mansioni richieste, in uno alle effettive condizioni lavorative in cui il rapporto di lavoro è destinato a svolgersi.

Forma e oggetto del patto di prova
L'art. 2096 c.c. dispone che il patto di prova «deve risultare da atto scritto». Secondo la giurisprudenza, la forma scritta è richiesta ad substantiam e non ad probationem, con la conseguenza che la sua mancanza comporta la nullità del patto di prova, ferma restando, naturalmente, la validità del contratto di lavoro, da intendersi sin dall'inizio stipulato a titolo definitivo (Cass. civ., Sez. Unite, 9 marzo 1983, n. 1756, più recente confermata da Cass. civ., Sez. lav., 18 luglio 2013, n. 17587 che ha inoltre puntualizzato come anche la dichiarazione di assunzione, sottoscritta «per ricevuta» dal lavoratore, integri il requisito della forma scritta, qualora nella lettera sia contenuto un invito a restituirla in segno di completa accettazione).
La Suprema Corte ha altresì precisato che la clausola in commento non costituisce clausola vessatoria, non essendo dunque necessario che essa venga specificamente approvata per iscritto ai sensi dell'art. 1341 c.c. (Cass. civ., Sez. lav., 16 luglio 1988, n. 4678).
Per quanto concerne, invece, l'aspetto temporale della formalizzazione del patto, è necessario che la sua stipulazione avvenga in un momento anteriore o coevo alla costituzione del rapporto, non essendo dunque possibile sanare la sua originaria mancanza mediante successiva formalizzazione (sul punto, Cass. civ., Sez. lav., 22 ottobre 2010, n. 21758).
È inoltre necessario, a pena di nullità del patto, che la clausola di prova contenga la specifica indicazione delle mansioni affidate al lavoratore, allo scopo di permettere al dipendente di poter preventivamente conoscere il contenuto della prova cui sarà sottoposto e sulla cui base sarà valutato dal datore di lavoro (da ultimo, Cass. civ., Sez. lav., 16 gennaio 2015, n. 665; contra, a quanto consta, soltanto Cass. civ., Sez. lav., 20 febbraio 1999, n. 1464). Secondo un orientamento ormai maggioritario della Suprema Corte, tale specificazione può avvenire anche mediante il rinvio per relationem al sistema classificatorio della contrattazione collettiva (Cass. civ., Sez. lav., 22 febbraio 2018, n. 4341, Cass. civ., Sez. lav., 23 maggio 2014, n. 11582 e Cass. civ., Sez. lav., 27 gennaio 2011, n. 1957; Trib. Roma sez. lav., 17/01/2019, n. 351), purché tale riferimento rimandi alla nozione più dettagliata delle categorie, delle qualifiche, dei livelli e dei profili professionali prevista dal contratto collettivo applicabile (in questo senso, più rigoroso, Cass. civ., Sez. lav., 19 marzo 2015, n. 5509; Cass. civ., Sez. lav., 25 febbraio 2015, n. 3852 e Cass. 20 maggio 2005, n. 11722; Trib. Modena, 11 gennaio 2017).
Con la sentenza n. 10041 del 15 maggio 2015, la Corte di Cassazione ha però considerato integrato il requisito della specificità in un caso in cui il datore di lavoro aveva dettagliatamente illustrato al lavoratore le sue mansioni in un «colloquio preassuntivo», concludendo che «dalla mancata indicazione per iscritto del reparto di cui al lavoratore veniva attribuita la responsabilità non è dato inferire la nullità della clausola». Tale decisione sembra dunque richiamare quell'orientamento, assolutamente minoritario e risalente, secondo cui la specificazione delle mansioni oggetto del patto di prova «può avvenire anche con patto orale» (Trib. Milano 31 gennaio 1997 e Pret. Milano 2 settembre 1986).
La giurisprudenza ha inoltre precisato che, poiché il patto di prova mira a tutelare l'interesse di entrambe le parti a sperimentare la reciproca convenienza del rapporto, deve ritenersi nullo il patto apposto a un contratto di lavoro quando tra quel datore di lavoro e quel lavoratore sia già intercorso un rapporto di lavoro; in tali casi, però, la clausola di prova è invalida solo qualora il precedente rapporto abbia già permesso al datore di lavoro di verificare l'attitudine del lavoratore a svolgere quelle specifiche mansioni (Cass. civ., Sez. lav., 14 luglio 2017, n. 17528 ha considerato nullo un patto di prova apposto a un contratto di lavoro a tempo indeterminato, dato che tra le stesse parti erano precedentemente intercorsi tre rapporti di lavoro a tempo determinato aventi ad oggetto le medesime mansioni; nello stesso senso Cass. Civ. sez. lav., 9 marzo 2020, n. 6633; Cass. civ., Sez. lav., 21 marzo 2017, n. 7167; Cass. civ., Sez. lav., 5 marzo 2015, n. 4466; Trib. Sulmona, 26 febbraio 2018; Trib. Ivrea, 10 novembre 2017). Questo principio è affermato dalla giurisprudenza anche in caso di successione di contratti di lavoro, ancorché di diversa natura (ad esempio contratto di lavoro a progetto il primo e contratto di lavoro subordinato il secondo) (in questo senso, Cass. civ., Sez. lav., 12 settembre 2016, n. 17921).
Interessante al riguardo una recente pronuncia della Corte di Cassazione che ha ritenuto ammissibile il patto di prova apposto ad un contratto a tempo indeterminato intervenuto successivamente a precedenti contratti a termine della durata di pochi mesi, sulla base della necessità per il datore di lavoro di verificare, oltre alle qualità professionali, anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all'adempimento della prestazione, trattandosi di elementi suscettibili di modificarsi nel tempo per molteplici fattori. In particolare, la Corte di Cassazione ha sottolineato «lo stabile inserimento nell'organizzazione aziendale, e la conseguente esigenza dell'imprenditore di potere pienamente utilizzare il dipendente in tutte le attività riconducibili alla qualifica di assunzione» con «evidente... diversità di tale situazione rispetto all'assunzione a termine dove le assunzioni sono disposte per pochi mesi e per sopperire ad esigenze transitorie» (cfr. Cass. civ, Sez. lav., 12 novembre 2018, n. 28930, cfr. anche Cassazione civile, sez. lav., 06/11/2018, n. 28252).

Durata massima della prova
In assenza di indicazioni sul punto da parte dell'art. 2096 c.c., la durata massima del periodo di prova è di norma stabilita dalla contrattazione collettiva, che impone dei limiti abbastanza contenuti, di solito differenziati per qualifiche professionali.
In ogni caso, un limite legale di durata è posto dal mai abrogato art. 4 del R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825 - secondo cui il termine massimo è fissato in sei mesi per gli impiegati di grado più elevato ed in tre mesi per tutti gli altri impiegati - ed è comunque deducibile, sia pur indirettamente, dall'art. 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604 - che fissa la durata massima del patto di prova in sei mesi e riguarda però solo operai, impiegati e quadri (Vettor, secondo cui resta comunque ferma la possibilità di stipulare un patto di prova con i dirigenti, formalmente esclusi da tale elenco, come indirettamente confermato da Cass. civ., Sez. lav., 11 gennaio 2011, n. 458).
Nel silenzio del legislatore, la giurisprudenza ritiene che la proroga del periodo di prova sia legittima, a condizione che essa sia redatta per iscritto e che la sua durata sia limitata entro il termine legale dei sei mesi (App. Firenze 6 giugno 2008). La regola dell'improrogabilità oltre i suddetti termini non dovrebbe invece trovare applicazione, a parere della dottrina, nei confronti dei dirigenti, non essendo loro applicabile né l'art. 4 del R.D.L. 13 novembre 1924 n. 1825, né le disposizioni della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Vettor).
Rispetto alla contrattazione collettiva, la contrattazione individuale può invece prevedere un termine inferiore oppure, nei casi di particolare complessità delle mansioni, per cui il giudice ravvisi un interesse positivo del lavoratore alla maggior durata della prova, un periodo più lungo rispetto a quello previsto dalla regolamentazione collettiva, sempre nel limite massimo di sei mesi (Cass. civ. sez. lav., 26 maggio 2020, n. 9789; Cass. civ., Sez. lav., 19 giugno 2000, n. 8295).
Resta fermo, ai sensi dell'art. 2096, comma 3, che le parti possano concordare una durata minima necessaria del periodo di prova con la conseguenza, in caso di mancato rispetto di tale pattuizione, dell'illegittimità del recesso.
Il recesso del datore di lavoro nel corso o al termine del periodo di prova
In linea generale, il recesso da parte del datore di lavoro - così come quello del lavoratore - in pendenza del periodo di prova non è soggetto a obblighi di motivazione e giustificazione. L'art. 2096, comma 3, dispone infatti che «durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d'indennità», dando così evidenza ad una delle poche ipotesi di recesso ad nutum dal rapporto di lavoro, ammesse dall'ordinamento nostrano.
L'art. 10 della legge 15 luglio 1996, n. 604 dispone, inoltre, che l'ordinaria disciplina del licenziamento individuale si applica, nei confronti dei lavoratori assunti in prova, solo dal momento in cui l'assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall'inizio del rapporto di lavoro.
La sindacabilità da parte del giudice del licenziamento nel corso o al termine della prova
Il regime del licenziamento nel corso o al termine del periodo di prova è stato, però, ridisegnato dalla sentenza del 22 dicembre 1980, n. 189 della Corte Costituzionale. Essa, pur ribadendo la facoltà di libero recesso da parte del datore di lavoro, ha introdotto un regime di "recesso condizionato"; in sostanza, la Corte ha individuato alcuni limiti all'esercizio del potere discrezionale del datore di lavoro, senza però estendere ai lavoratori assunti in prova le garanzie previste dall'ordinaria disciplina del licenziamento individuale.
Il primo limite deriva dall'obbligo di consentire al lavoratore l'esperimento della prova: il recesso sarà, dunque, illegittimo nel caso in cui la prova non sia stata svolta, o quando la durata del periodo di prova sia stata inadeguata, o ancora quando la prova sia stata eseguita in tempi e con modalità tali da impedire al lavoratore di esprimere le proprie capacità professionali (Cass. civ., Sez. lav., 12 marzo 1999, n. 2228; nel merito, Trib. Milano 1° febbraio 2008; Trib. Siena sez. lav., 9 marzo 2018, n. 56).
Il secondo limite si ricava, invece, dai principi generali in materia d'illiceità dei motivi del negozio giuridico: il licenziamento sarà, invero, illegittimo quando il recesso non è collegato all'esito dell'esperimento della prova, ma sia invece imputabile a un motivo estraneo alla causa del patto, perché illecito o discriminatorio (Cass. civ., Sez. lav., 17 novembre 2010, n. 23224 o Cass. civ., Sez. lav., 13 agosto 2008, n. 21586).
La giurisprudenza ha, inoltre, precisato che il licenziamento dovrà ritenersi illegittimo anche nel caso in cui il lavoratore sia stato utilizzato in mansioni difformi rispetto a quelle oggetto del patto, a condizione che esse siano significativamente diverse da quelle pattuite (Cass. civ., Sez. lav., 6 dicembre 2001, n. 15432, confermata da Cass. civ., Sez. lav., 22 maggio 2015, n. 10168 e da Cass. civ. Sez. lav., 3 dicembre 2018, n. 31159 e Trib. Trento sez. lav., 29/11/2018, n. 222).
Resta fermo che il recesso per mancato superamento del periodo di prova sarà comunque considerato illegittimo in tutti quei casi, sopra evidenziati, in cui venga acclarata la nullità del patto, con la conseguenza che, in tale evenienza, il rapporto di lavoro dovrà considerarsi ab origine definitivo, con derivata applicazione delle norme in materia di licenziamento illegittimo.

L'onere della prova
A differenza di quanto avviene normalmente in tema di licenziamento, spetta al lavoratore l'onere di dimostrare l'illegittimità del recesso (Cass. civ., Sez. lav., 29 ottobre 2020, n. 23927; Cass. civ. sez. lav., 11 luglio 2018, n.18268, Cass. civ., Sez. lav., 18 gennaio 2017, n. 1180; Cass. civ., Sez. lav., 14 ottobre 2009, n. 21784; C. App. Roma sez. lav., 17 settembre 2020, n. 1691; Trib. Vibo Valentia 22 luglio 2020, n. 350; Trib. Venezia 5 novembre 2019).
La giurisprudenza ha inoltre contribuito a tratteggiare due regimi speciali di tutela, applicabili alle categorie dei lavoratori invalidi avviati obbligatoriamente e alle lavoratrici madri assunte con patto di prova. Con riferimento ai primi, invero, la Suprema Corte ha precisato che l'esperimento della prova deve svolgersi su mansioni compatibili con lo stato d'invalidità del lavoratore; inoltre, l'eventuale decisione di non confermare il dipendente non deve essere influenzata da considerazioni di minor rendimento di tali categorie di dipendenti rispetto a quello dei lavoratori validi (Cass. civ., Sez. Unite, 2 agosto 2002, n. 11633). Con riferimento ai secondi, invece, la giurisprudenza ha statuito che il patto di prova è compatibile con lo stato di gravidanza (Cass. civ., Sez. lav., 17 marzo 1992, n. 4740): resta fermo, comunque, che il recesso datoriale sarà discriminatorio qualora venga accertato che il licenziamento sia stato comminato in ragione della gravidanza e non per mancato superamento del periodo di prova.

Le conseguenze dell'illegittimità del licenziamento intimato durante o al termine del periodo di prova
In merito alle conseguenze derivanti dall'illegittimità del recesso datoriale, occorre distinguere due ipotesi, come sottolineato dalla giurisprudenza della Suprema Corte (su tutte, tale distinzione è ben enucleata da Cass. civ., Sez. lav., 18 novembre 2000, n. 14950).
In caso di invalida apposizione del patto di prova, sarà rilevata la nullità parziale della relativa clausola e il rapporto di lavoro dovrà considerarsi definitivo sin dal momento della conclusione del contratto di lavoro, così da trovare applicazione il regime ordinario del licenziamento individuale e le normali tutele contro i licenziamenti illegittimi (si veda, in un caso di patto di prova nullo per generica indicazione delle mansioni, Cass. civ., Sez. lav., 25 febbraio 2015, n. 3852). Sono state equiparate dalla giurisprudenza ai casi di nullità del patto di prova, almeno ai fini sanzionatori, tutte quelle ipotesi in cui la prova sia stata validamente esperita, ma il lavoratore sia stato adibito a mansioni sostanzialmente diverse: in tal caso, dovranno applicarsi i rimedi ordinari contro i licenziamenti illegittimi (Cass. civ., Sez. lav., 14 luglio 2017, n. 17528; Cass. civ., Sez. lav., 22 maggio 2015, n. 10618).
In caso di legittima apposizione del patto ma di nullità del licenziamento intimato durante il periodo di prova, sarà, invece, inapplicabile il regime ordinario del licenziamento individuale ed il lavoratore illegittimamente licenziato avrà diritto alla prosecuzione, ove possibile, della prova, oppure, ove abbia avanzato in giudizio la relativa richiesta, al risarcimento del danno equivalente alle retribuzioni non percepite nel corrispondente periodo. Tale rimedio, di matrice eminentemente giurisprudenziale, dovrà applicarsi nel caso in cui il recesso sia illegittimo per inadeguata durata della prova, quando la prova si sia svolta in tempi e con modalità tali da impedire al lavoratore di esprimere le proprie capacità professionali, o per l'esistenza di un motivo illecito (Cass. civ. Sez. lav., 3 dicembre 2018, n. 31159; Cass. civ., Sez. lav., 17 novembre 2010, n. 23231).
Lo scenario è leggermente diverso nel caso in cui il recesso datoriale illegittimo sia intervenuto al termine della prova. Sul punto, la giurisprudenza ha ribadito che, a fronte della nullità del licenziamento, il lavoratore potrà chiedere (e ottenere) il risarcimento del danno; in tal caso, però, il giudice dovrà qualificare il danno risarcibile come "pregiudizio di mancata assunzione", utilizzando come parametro di riferimento per la sua quantificazione le «retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito ove il rapporto di lavoro avesse avuto regolare esecuzione» (Cass. civ., Sez. lav., 27 ottobre 2010, n. 21965, che però non precisa l'arco temporale di riferimento da tenere in considerazione per la liquidazione del danno).
Le conseguenze dell'illegittimità del licenziamento intimato durante o al termine del periodo di prova dei lavoratori assunti dopo il c.d. Jobs Act
Il D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (c.d. Jobs Act) ha dettato una nuova disciplina in materia di rimedi applicabili in caso di licenziamento illegittimo, cui sono assoggettati tutti i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 ed occorre, allora, interrogarsi, sulle conseguenze connesse alle ipotesi in trattazione.
Ebbene, in caso di legittima apposizione del patto di prova, ma di licenziamento illegittimo, nulla dovrebbe cambiare: il lavoratore avrà diritto alla prosecuzione della prova o al risarcimento del danno equivalente alle retribuzioni non percepite nel corrispondente periodo.
In caso di nullità del patto di prova, invece, poiché la giurisprudenza ha più volte precisato che si applica il regime ordinario del licenziamento individuale e le normali tutele contro i licenziamenti illegittimi, il datore di lavoro sarà assoggettato al nuovo apparato rimediale, di natura esclusivamente economica, predisposto dal Jobs Act.
Secondo parte della dottrina, invero, se il licenziamento è motivato con l'esito negativo della prova, logica vuole che, in assenza di prova circa un grave difetto della prestazione, o di altre circostanze effettivamente ostative alla prosecuzione del rapporto, la fattispecie venga equiparata a quella dell'insussistenza o insufficienza del motivo di licenziamento, con conseguente condanna del datore di lavoro all'indennizzo.
Senonché le prime sentenze di merito intervenute a seguito dell'entrata in vigore del Jobs Act sembravano abbracciare una diversa interpretazione, ritenendo che l'illegittimità del licenziamento intimato sul presupposto di un patto di prova nullo comportasse il diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro (oltre alla indennità risarcitoria sino ad un massimo di 12 mensilità), rientrandosi nell'ipotesi, disciplinata dall'art. 3, comma 2 del Jobs Act, di ingiustificatezza del recesso intimato per insussistenza del fatto materiale. In particolare, «l'indimostrata sussistenza di un valido patto di prova apposto per iscritto al contratto di lavoro in esame comporta l'ingiustificatezza del licenziamento impugnato, ex art. 1 e ss. L. 104/1966, in quanto fondato su una ragione inesistente e, cioè, sull'asserito mancato superamento di un patto di prova in realtà non validatamente stipulato per iscritto dalle parti e quindi, nullo e inefficace, ex art. 2096 c.c. (nello stesso senso, Trib. Roma 15 gennaio 2019 e più di recente Trib. Livorno, 14 maggio 2020, n. 115).».
Successive pronunce di merito, invece, si sono espresse differentemente, affermando che la nullità del patto di prova per difetto di specifica indicazione delle mansioni che ne costituivano l'oggetto non comporta la reintegrazione del lavoratore, ma esclusivamente la condanna del datore di lavoro al pagamento dell'indennità risarcitoria, ai sensi dell'art. 3, comma 1, del D.Lgs. 23/2015. Si è ritenuta, infatti, in tal senso non applicabile la tutela prevista per l'insussistenza del fatto materiale contestato di cui all'art. 3, comma 2, posto che «alla stregua del tenore letterale della norma, essa è applicabile ai soli licenziamenti di natura disciplinare, mentre il mancato superamento della prova di per sé non integra né presuppone necessariamente una condotta disciplinarmente rilevante», con conseguente applicazione della tutela risarcitoria di cui all'art. 3, comma 1 cit.
Secondo tale orientamento, in particolare, la tutela reintegratoria "debole" ex art. 3, co. 2, d.lgs. n. 23/2015, è rimedio specifico, costituente eccezione rispetto all'ordinaria tutela indennitaria, destinato "esclusivamente" a determinate ipotesi di licenziamento disciplinare ingiustificato e quindi ad ipotesi diverse da quella del recesso ingiustificato per nullità del patto di prova, che non può neppure essere ricondotta nell'alveo dei licenziamenti disciplinari.
Resta ferma, in ogni caso, la possibilità, per il lavoratore illegittimamente licenziato, di provare la discriminatorietà o la nullità, riconducibile a casi espressamente previsti dalla legge, del licenziamento in prova: in tali casi, il datore di lavoro dovrà verosimilmente essere condannato alla reintegrazione e al risarcimento del danno, secondo quanto previsto dall'art. 2, D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23.

Questioni di rito: termini per l'impugnazione del licenziamento in prova
L'art. 6 della legge 15 luglio 1996, n. 604, così come modificato dall'art. 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. "Collegato Lavoro"), impone, a pena di decadenza, che il licenziamento intimato dal datore di lavoro sia impugnato entro sessanta giorni dalla sua comunicazione.
Come noto, l'art. 10 della legge 15 luglio 1996, n. 604 sottrae dal campo di applicazione di tale disciplina i lavoratori assunti in prova. Non è dunque chiaro se anche il licenziamento intimato durante o al termine del periodo di prova debba essere impugnato, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla sua comunicazione.
La questione è stata risolta in senso affermativo dalla giurisprudenza e dalla dottrina, ma con un importante distinguo.
In caso di legittima apposizione del patto di prova, ma di licenziamento nullo, l'onere di impugnazione del recesso datoriale dovrebbe infatti derivare dalla previsione contenuta nel secondo comma dell'art. 32 del "Collegato Lavoro", secondo cui il termine decadenziale si applica «a tutti i casi di invalidità e di inefficacia del licenziamento» (la soluzione è condivisa dalla giurisprudenza di merito: sul punto, la già citata Tribunale di Milano 4 aprile 2013).
In caso di nullità del patto di prova, invece, ricadendo nell'ambito del regime ordinario del licenziamento individuale, il lavoratore dovrà tempestivamente impugnare il recesso datoriale per diretta applicazione dell'art. 6 della legge 15 luglio 1996, n. 604, così come modificato dall'art. 32 del "Collegato Lavoro" (Boghetich).
Applicabilità del c.d. "rito Fornero" al licenziamento intimato durante o al termine della prova
L'art. 1, comma 47, della legge 28 giugno 2012, n. 92 ha introdotto il c.d. "rito Fornero", riservato alle «controversie aventi a oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni».
La dottrina ha sottolineato che il rito non si applica a quei licenziamenti che esulano dal campo di applicazione della legge 15 luglio 1996, n. 604, tra cui, appunto, il recesso del datore di lavoro durante o al termine della prova (Tosi).
Ciò non toglie che, nel caso in cui un lavoratore chieda la nullità del patto di prova e, di conseguenza, l'illegittimità del recesso datoriale irrogato nel corso di un rapporto di lavoro che deve intendersi ab origine definitivo, allora il relativo procedimento dovrà essere celebrato nelle forme del "rito Fornero", anche se solo per quei licenziamenti ricadenti nell'ambito dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. Statuto dei Lavoratori). Infatti, l'applicazione del rito va determinata alla stregua della prospettazione di parte ricorrente quale risulta dal contenuto della domanda (Trib. Roma 21 febbraio 2013): pertanto, se il lavoratore chiede la nullità del patto e la conseguente applicazione dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, il giudice dovrà applicare il rito speciale di cui all'art. 1, comma 47, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (conferma espressamente tale lettura, Trib. Roma 19 dicembre 2012; tratta la controversia con il "rito Fornero" anche Trib. Milano 4 aprile 2013).
Resta fermo che, in caso di controversia con un lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015, non troverà invece applicazione il "rito Fornero", secondo quanto espressamente previsto dall'art. 11 del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23.

Considerazioni conclusive
Il patto di prova apposto al contratto di lavoro costituisce, in conclusione, un fondamentale strumento di preventiva valutazione della complessiva, reciproca convenienza lavorativa alla prosecuzione del rapporto, potendo, in tal modo, il datore accertarsi delle capacità e della personalità del prestatore anche in relazione all'idoneità dello stesso ad adempiere gli obblighi di fedeltà, diligenza e correttezza; ed al contempo potendo il lavoratore a sua volta valutare l'entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto.
Ne consegue come, a di là dei requisiti formali di valida apposizione del patto in questione con atto scritto che sia antecedente o quantomeno coevo all'inizio del rapporto di lavoro, appare fondamentale che il patto contenga la specifica indicazione delle mansioni che ne costituiscono l'oggetto, la quale può essere operata anche con riferimento alle declaratorie del contratto collettivo, sempre che il richiamo sia sufficientemente specifico e riferibile alla nozione classificatoria più dettagliata, sicché, se la categoria di un determinato livello accorpi una pluralità di profili, è necessaria l'indicazione del singolo profilo, mentre risulterebbe generica quella della sola categoria.
La legittimità del licenziamento intimato durante il periodo di prova, infatti, può essere efficacemente contestata dal lavoratore quando risulti che non è stata consentita, per la mancata o generica indicazione delle mansioni, ovvero per l'inadeguatezza della durata dell'esperimento o per altri motivi, quella verifica del suo comportamento e delle sue qualità professionali alle quali il patto di prova è preordinato.
In tal guisa, sebbene il recesso del datore di lavoro nel corso del periodo di prova abbia natura discrezionale e dispensi dall'onere di provarne la giustificazione, diversamente da quel che accade nel licenziamento, l'esercizio di tale potere deve essere necessariamente coerente con la causa del patto di prova. Pertanto, non è configurabile un esito negativo della prova ed un valido recesso, qualora le modalità dell'esperimento non risultino adeguate ad accertare la capacità lavorativa del prestatore in prova.