Il rifiuto della trasfusione non taglia il risarcimento ai parenti della vittima
La Cassazione esclude in ambito civile il taglio del risarcimento danni da incidente stradale se la vittima muore perché rifiuta trasfusioni per convincimento religioso. Lo stabilisce la sentenza 515/2020, depositata il 15 gennaio. Il principio è limitato a un caso particolare e non ha riflessi penali (si veda l’articolo sotto), ma è argomentato con spunti interessanti.
La vittima era stata ricoverata in gravissime condizioni in un ospedale di Roma, dove veniva sottoposto ad intervento chirurgico d’urgenza ma non alla terapia emotrasfusionale prescritta, perché al momento dell’incidente aveva con sé una dichiarazione dalla quale emergeva la sua volontà di non essere emotrasfuso per motivi religiosi. Dopo il suo decesso, i congiunti facevano causa alla compagnia che assicurava il responsabile civile dell’incidente, per ottenere il risarcimento dei danni subiti.
Il Tribunale di Roma accoglieva il ricorso, affermando che la responsabilità dell’incidente era riconducibile esclusivamente al conducente della vettura investitrice e condannando il suo assicuratore a risarcire i danni patiti dai congiunti per la morte della vittima. La compagnia presentava appello, adducendo che la morte fosse conseguenza diretta e immediata del rifiuto della vittima di ricevere trasfusioni di sangue.
La Corte d’appello di Roma accoglieva parzialmente quest’ultimo ricorso e, pur ritenendo che il sinistro fosse da attribuirsi in via esclusiva al conducente sopravvissuto, giudicava che le possibilità di sopravvivenza del paziente, ove fosse stato sottoposto alla trasfusione di sangue, fossero tra il 50% e il 65%. I giudici di secondo grado concludevano che l’evento mortale fosse riconducibile al concorso in pari misura di due cause: la condotta del conducente investitore e l’esposizione volontaria da parte del deceduto ad un rischio. Quindi, la sentenza d’appello riduceva il risarcimento dovuto ai congiunti della vittima del 50%, per tener conto dell’apporto concausale di quest’ultima al verificarsi della propria morte.
Tale pronuncia è stata ora cassata, per vari motivi. In sintesi, secondo la Cassazione non si può configurare alcun obbligo di sottoporsi alla cura e il rifiuto non è inquadrabile nell’ipotesi di concorso colposo del creditore prevista dall’articolo 1227, comma 2 del Codice civile. La norma comprende solo quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici. E il danneggiato aveva il diritto di rifiutare la trasfusione di sangue per ragioni di coscienza religiosa.
A questa conclusione si arriva attraverso una serie di considerazioni.
La prima ha per oggetto il tema complesso della causalità materiale e quella giuridica. L’accertamento del primo dei due nessi causali è necessario per stabilire se vi sia responsabilità e a chi vada imputata. L’accertamento del secondo nesso causale serve per stabilire la misura del risarcimento. La Cassazione ha ritenuto che l’accertamento del nesso di causa non può che avere per esito la verifica della sua sussistenza o della sua insussistenza, sicché è inconcepibile un suo frazionamento.
Inoltre, l’infrazionabilità del nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è confermata indirettamente dall’articolo 1227 del Codice civile. Tale norma, infatti, prevedendo la riduzione della responsabilità nel solo caso di concorso causale da parte della vittima, implicitamente esclude la frazionabilità del nesso nel caso di concorso di cause naturali o di condotte non colpevoli con la condotta del responsabile.
Una volta affrontato e risolto il problema del nesso di causalità, la Cassazione ha affermato che non è possibile contenere l’esposizione debitoria dell’assicuratore del responsabile civile. Ciò significherebbe arrecare, sia pure in via indiretta, un vulnus ad un diritto che, invece, trova sempre più spazio e riconoscimento nell’ordinamento.
In pratica, il rifiuto dell’emotrasfusione ha acquistato una tale rilevanza nella coscienza sociale da non ammettere limitazioni di sorta al suo esercizio. E appare evidente che intervenire sul contenimento delle conseguenze risarcitorie a carico dell’offensore significherebbe indirettamente intervenire sulla intensità e sulla qualità del suo riconoscimento.
Corte di cassazione – Sentenza 515/2019