Professione e Mercato

Incompatibilità dei mediatori, vigila il codice etico dell’organismo

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di Davide Ponte

Le incompatibilità e i conflitti di interessi degli avvocati-mediatori devono essere stabiliti dai regolamenti e dai codici etici degli stessi organismi di mediazione. Il Tar del Lazio con una serie di sentenze pubblicate nel mese di aprile ha così annullato l'articolo 14 bis del Dm 180/10 che disciplina il tema della imparzialità e della indipendenza dei mediatori.
Il Ministero, hanno ribadito i giudici amministrativi, ha un altro compito, non meno importante, quello di vigilare sul corretto esercizio dell'attività.
Dunque, il tribunale amministrativo più noto d'Italia contribuisce ancora una volta all'adeguamento della cosiddetta mediazione ai principi dell'ordinamento giuridico.

La nostra analisi si concentra sulla pronuncia n. 3989 del 1° aprile 2016 perché più di inquadramento e con la maggiore generalità delle parti ricorrenti.

La questione controversa - Un breve excursus della vicenda contenziosa può essere utile al fine di giungere a una piena comprensione dei passaggi argomentativi e delle conclusioni cui è giunto il Tar centrale.
Le associazioni forensi operanti nel campo della mediazione nonché alcuni avvocati mediatori impugnavano alcune norme regolamentari di cui al Dm Giustizia (di concerto con Sviluppo Economico) n. 139 del 4 agosto 2014, in specie laddove si introduceva l'articolo 14-bis al previgente Dm 180/2010, rubricato «Incompatibilità e conflitto di interessi» che conteneva alcune limitazioni all'attività del mediatore (in specie all'avvocato-mediatore). In base a quella norma, da un lato, chi svolgeva l'attività di mediazione presso un Organismo non avrebbe potuto essere parte o rappresentare o in ogni modo assistere parti in procedure di mediazione dinanzi a quell'organismo. Venivano altresì impugnate altre norme di dettaglio del Dm, concernenti l'obbligo di inviare periodicamente al dicastero una serie di dati statistici (articolo 4) nonché l'estensione del periodo di completamento del tirocinio (articolo 9).
All'esito dei connessi giudizi il Tar del Lazio ha accolto i ricorsi in relazione al punto di maggior rilievo, in tema di incompatibilità. Ciò in specie sia sulla scorta di elementi formali, stante la mancanza della necessaria copertura legislativa della norma regolamentare, sia sulla scorta di considerazioni sostanziali, in specie in relazione alla disciplina generale forense.
Ha invece respinto le censure mosse avverso le altre regole di dettaglio, sia per la copertura normativa che a fronte della transitorietà delle stesse.

La ricostruzione della disciplina in tema di mediazione - Già in altre occasioni il Tar Lazio ha dovuto provvedere a riesaminare e reinquadrare l'istituto in commento, come avvenuto in seguito a pronunce costituzionali e con riferimento alla disciplina regolamentare attuativa.
Non molto tempo fa, infatti, la stessa prima sezione (sentenza n. 9351/2015) ha ritenuto che l'intervento caducatorio della Corte costituzionale, con la sentenza 6 dicembre 2010 n. 272, si sia diretto non già tout court avverso l'istituto della mediazione per la conciliazione di una controversia civile e commerciale bensì, specificamente, contro il carattere obbligatorio dell'istituto della mediazione e la conseguente strutturazione della relativa procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle controversie ivi previste; ciò quindi non poteva avere effetto invalidante sulla disciplina complessivamente recata dal Regolamento n. 180/2010 e avente a oggetto le modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell'elenco dei formatori per la mediazione, che non venivano incise nei loro presupposti dalla pronuncia di incostituzionalità.

In altre occasioni la stessa disciplina regolamentare è stata censurata in tema di gratuità del procedimento di mediazione che si concluda al primo incontro (sentenza n. 1351 del 2015).
Anche le sentenze in esame hanno meritoriamente preso le mosse da una ricostruzione (invero quasi scolastica) dell'attuale disciplina dell'istituto in questione.
Prendendo le mosse dalla legge delega (articolo 60 della legge 18 giugno 2009 n. 69) e dai principi ivi dettati, il Tar rileva come il legislatore avesse voluto sin da allora chiarire alcuni “punti cardine” da seguire, principalmente orientati a riconoscere che la mediazione era limitata ai diritti disponibili, che gli «organismi di conciliazione», e non i singoli mediatori, erano i soggetti destinatari del compito di dare luogo alla “mediazione” come congegnata, riconoscendo per quelli istituiti presso i tribunali alcune facilitazioni, che gli organismi stessi erano “vigilati” dal ministero della Giustizia, che assumeva rilievo il rispetto del “codice deontologico” al fine di garantire la neutralità, indipendenza e imparzialità del singolo conciliatore nello svolgimento delle sue funzioni.

In sede di prima attuazione, con il decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28, venivano adottate una serie di norme da cui emergeva che il regolamento dell'organismo scelto dalle parti assume un ruolo centrale nell'assetto della procedura. Ciò viene reputato in linea con la volontà del legislatore “delegante” di dare rilievo alla struttura di mediazione in sé considerata più che ai singoli componenti. In tale ottica la norma base prevede che sia il regolamento stesso ad assumere (anche) la funzione di individuare modalità di nomina del (singolo) mediatore che ne assicurino la sostanziale indipendenza e terzietà; ciò in conformità agli effetti di tale attività che incide comunque su situazioni soggettive delle parti in posizioni di parità e in virtù anche dell'obbligo di comunicazione sull'esistenza (ed eventuale obbligatorietà ex articolo 5 del Dlgs citato) di tale procedura che incombe sull'avvocato al momento del conferimento di un incarico professionale.

Alla luce delle ulteriori norme di cui al decreto delegato rilevanti (articoli 9, 10 e 14) la sentenza ritiene che il legislatore delegato abbia adeguatamente considerato le modalità idonee a garantire l'imparzialità e terzietà del mediatore, facendo rinvio alla relativa regolamentazione a opera del singolo organismo di mediazione - a sua volta vigilato dal ministero della Giustizia - e alla dichiarazione di impegno alla sua osservanza che ogni mediatore dove sottoscrivere per ciascun affare.

Alla luce di tali considerazioni, pertanto, non può residuare spazio in materia per una decretazione ministeriale, se non nei limiti desumibili dall'articolo 16, commi 2 e 3, del Dlgs, secondo il quale i decreti ministeriali sono chiamati a disciplinare la formazione del registro e la sua revisione, l'iscrizione, la sospensione e la cancellazione degli iscritti, l'istituzione di separate sezioni del registro per la trattazione degli affari che richiedono specifiche competenze anche in materia di consumo e internazionali, nonché la determinazione delle indennità spettanti agli organismi nonché le procedure telematiche eventualmente utilizzate dall'organismo, in modo da garantire la sicurezza delle comunicazioni e il rispetto della riservatezza dei dati.

Sulla scorta di tale ricostruzione, le sentenze evidenziano come in materia di garanzie di imparzialità sia demandato a provvedere lo stesso organismo di mediazione con il proprio codice etico, soggetto su cui è centrata l'attenzione al fine di regolamentare l'intera procedura e sul quale comunque il ministero della Giustizia esercita, in ogni momento, la sua vigilanza. In tale contesto, non sono riscontrabili spazi ulteriori per i regolamenti ministeriale attuativi, i quali sono legittimati a intervenire su modalità di formazione e tenuta del registro.

La disciplina delle incompatibilità - Nell'ambito del ragionamento svolto dal Tar Lazio, l'imparzialità e la terzietà del mediatore, sono ritenute necessarie; tuttavia le stesse sono ricollegate alla dichiarazione del singolo secondo l'imposizione del regolamento dell'organismo, a pena di procedibilità, e in relazione a quanto già previsto dalla normativa primaria come sopra ricostruita.
In tale contesto non trova quindi sostegno la norma regolamentare impugnata, la quale si occupa direttamente dell'incompatibilità e dei conflitti di interesse del singolo mediatore.
A fini di completezza la norma contestata va qui riprodotta: «Il mediatore non può essere parte ovvero rappresentare o in ogni modo assistere parti in procedure di mediazione dinanzi all'organismo presso cui è iscritto o relativamente al quale è socio o riveste una carica a qualsiasi titolo; il divieto si estende ai professionisti soci, associati ovvero che esercitino la professione negli stessi locali. Non può assumere la funzione di mediatore colui il quale ha in corso ovvero ha avuto negli ultimi due anni rapporti professionali con una delle parti, o quando una delle parti è assistita o è stata assistita negli ultimi due anni da professionista di lui socio o con lui associato ovvero che ha esercitato la professione negli stessi locali; in ogni caso costituisce condizione ostativa all'assunzione dell'incarico di mediatore la ricorrenza di una delle ipotesi di cui all'articolo 815, primo comma, numeri da 2 a 6, del codice di procedura civile. Chi ha svolto l'incarico di mediatore non può intrattenere rapporti professionali con una delle parti se non sono decorsi almeno due anni dalla definizione del procedimento. Il divieto si estende ai professionisti soci, associati ovvero che esercitano negli stessi locali».
Tale disciplina viene quindi annullata con le sentenze in epigrafe, sulla base di una duplice valutazione.
In primo luogo, sotto un profilo formale, in quanto già per principio generale (ex articolo 17, comma 3, della legge 400/1988), è sempre necessaria un'espressa previsione di legge che legittimi l'attuazione, e quindi l'estensione, della potestà regolamentare. Nella specie la ricostruzione del dato normativo ha escluso la sussistenza di tale base legislativa.
Invero, sul punto assume ulteriore conferma l'inascoltato avviso che già il Consiglio di Stato ebbe occasione di dare in sede consultiva; infatti, nel rendere il necessario parere sul testo del Dm impugnato, Palazzo Spada aveva espresso a chiare lettere la riserva in ordine alla collocazione dei commi 1 e 3 dell'articolo 14-bis del testo al suo esame, «...trattandosi di questione che può presentare interconnessioni con l'ordinamento forense, come tale necessitante - semmai - di apposita previsione in altra iniziativa normativa».
In secondo luogo, in termini sostanziali le pronunce affrontano la tematica dell'avvocato mediatore di diritto così come previsto dalla normativa successiva (decreto legge n. 69 del 2013); anche tale normativa porta a escludere una figura, quella dell'avvocato-mediatore, del tutto peculiare caratterizzata da «una inscindibilità di posizione laddove un avvocato scelga di dedicarsi (anche) alla mediazione».
Da tale indicazione se ne trae una di ordine più generale. Infatti, il decreto ministeriale, oltre a non avere una formale base legislativa da attuare, non ha comunque «tenuto conto della peculiare disciplina che regola la professione forense, di cui alla legge 31 dicembre 2012 n. 247 e allo specifico codice deontologico vigente, pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” del 16 ottobre 2014, il cui articolo 62 prevede esplicitamente la regolamentazione della funzione di mediatore per colui che è avvocato».

Indicazioni di prospettiva - Dalle sentenze in esame possono trarsi ulteriori indicazioni, oltre alla ricostruzione della disciplina vigente. Infatti, se per un verso si è delimitato il potere regolamentare del Ministero, per un altro verso viene comunque ribadito con forza il potere di vigilanza del Dicastero sugli Organismi di mediazione (e sui loro Regolamenti).
Se per tale via (di vigilanza) non potrà giungersi al medesimo risultato di cui alla normativa annullata, resta confermato che il Ministero è chiamato comunque a vigilare sull'idoneità del Regolamento (e del codice etico nonché della dichiarazione di indipendenza) a perseguire l'indicato obiettivo di garantire, in astratto, il rispetto dei principi di imparzialità e indipendenza del mediatore, sulla cui rilevanza non si discute.

In concreto la vigilanza è chiamata a operare con attenzione sulle diverse e varie situazioni di fatto, al fine di verificare che nel caso concreto imparzialità e indipendenza siano state o meno garantite. È evidente che nell'esercizio di tale vigilanza potranno emergere delle linee guida o delle prassi applicative, le quali, peraltro, non potranno certo assumere i connotati dell'imposizione di modelli generali analoghi alla norma annullata, dovendo sempre svolgersi sul piano della verifica del rispetto nella fattispecie concreta dei fondamentali principi predetti.
Certo, laddove il legislatore non abbia una tale fiducia nell'autoregolazione ovvero nella funzione di vigilanza rimessa al caso concreto, potrà certamente intervenire; ma in tal caso lo dovrà fare al livello primario, quello legislativo.

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