Casi pratici

Indagini bancarie e presunzione di imponibilità

di Giancarlo Marzo e Liliana Peruzzu

LA QUESTIONE
Quando si applica la presunzione di imponibilità riferita alle indagini finanziarie? In cosa si sostanzia l'onere della prova contraria posto in capo al contribuente?

Come noto, accade sovente che l'Amministrazione finanziaria proceda all'emissione di atti impositivi poggiati sulle risultanze di indagini bancarie. Sulla base dei dati così raccolti l'Ufficio può, infatti, presumere che il contribuente abbia sottratto ad imposizione le somme corrispondenti alle movimentazioni riscontrate. Spetta, poi, al contribuente fornire la prova contraria in ordine all'estraneità degli elementi rilevati alla produzione del reddito, dimostrando in particolare: i) che i ricavi (o compensi) sono stati registrati in contabilità o che non hanno avuto rilevanza ai fini della produzione del reddito ritraibile dall'esercizio dell'attività professionale; ii) che i prelievi non risultanti dalle scritture contabili sono serviti per pagare determinati beneficiari.
La presunzione di imponibilità, ai fini delle imposte dirette, rinviene radice normativa nel testo dell'art. 32, comma 1, n. 2), del d.P.R. n. 600 del 1973, ai sensi del quale i dati risultanti dalle movimentazioni bancarie "sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine". Alle medesime condizioni sono, altresì, posti come ricavi o compensi, alla base delle stesse verifiche ed accertamenti, i prelevamenti o gli importi riscossi per importi giornalieri superiori ad euro 1.000 o, comunque, superiori ad euro 5.000 mensili.
La disposizione trova applicazione anche per le attività di controllo e rettifica della dichiarazione in riferimento all'imposta regionale sulle attività produttive, per effetto del rinvio disposto dall'art. 25, comma 1, del D.Lgs. n. 446 del 1997.
Quanto agli accertamenti in materia di imposta sul valore aggiunto, la presunzione in parola è incasellata nell'art. 51, comma 1, n. 2), del d.P.R. n. 633 del 1972, il quale prevede (con solo riferimento ai versamenti e non anche ai prelevamenti) che i dati risultanti dalla movimentazioni bancarie, analogamente a quanto avviene per le imposte sui redditi, possano essere "posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 54 e 55 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili".
Le indagini bancarie, da cui deriva l'applicazione della presunzione in esame, necessitano di uno specifico provvedimento di autorizzazione. Tuttavia, come chiosato dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. sent. 22 settembre 2020, n. 19775) "l'autorizzazione necessaria agli Uffici per l'espletamento di indagini bancarie non deve essere corredata dall'indicazione dei motivi, non solo perché in relazione ad essa la legge non dispone alcun obbligo di motivazione, ma anche in quanto la medesima, nonostante il "nomen iuris" adottato, esplica una funzione organizzativa, incidente solo nei rapporti tra uffici, ed ha natura di atto meramente preparatorio, con la conseguenza che non è qualificabile come provvedimento o atto impositivo, tipologie di atti per le quali è previsto, rispettivamente, dalla L. n. 241 del 1990, art. 3, comma 1, e dalla L. n. 212 del 2000, art. 7, un obbligo di motivazione".
Si evidenzia, inoltre, che la presunzione di imponibilità dettata in materia di imposte sui redditi, omologa a quella stabilita in materia di IVA, consente di riferire a redditi (e, nel secondo caso, a ricavi) imponibili, conseguiti nell'attività economica svolta dal contribuente, tutti i movimenti bancari rilevati dal conto, ivi compresi gli incassi extra conto di assegni circolari. La Corte di Cassazione ha, di fatti, confermato in talune recenti pronunce che "le operazioni bancarie in extra-conto, quali quelle di incasso di assegni circolari, sono equiparabili ai versamenti (perché la somma, proveniente da un terzo, viene trattenuta dall'interessato che cambia l'assegno in cassa senza transitare per il conto)" (cfr. Cass. 30 marzo 2021, n. 8718).

Limitazioni all'operatività della presunzione
La normativa in rassegna è stata oggetto, nel corso del tempo, di diverse rielaborazioni, volte a circoscrivere lo spettro operativo della presunzione in parola. Ciò, anche in conseguenza alle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale, chiamata, in più di un'occasione, a pronunciarsi in merito.
In particolare, si rammenta che con l'art. 7-quater, comma 1, lett. a) e b), del D.L. n. 193 del 2016 (conv. con mod. in legge n. 225 del 2016) – intervenuto in modifica dell'art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 – sono state inserite delle "franchigie" per le operazioni di segno negativo – pari a euro 1.000 giornalieri e, comunque, sino a euro 5.000 mensili – al di sotto delle quali la presunzione legale di maggior reddito non può operare (cfr. circolare Guardia di Finanza 7 aprile 2017 n. 109546). La limitazione, tuttavia, risulta delimitata ai soli prelevamenti e non opera rispetto ai versamenti, per i quali rimane in vigore la regola che costituiscono presunzione di reddito qualora non risultino "giustificati". Quanto alla decorrenza di tali modifiche, Corte di Cassazione (cfr. ex multis Cass. n. 26683 del 2019) e Agenzia delle entrate (cfr. circolare 7 aprile 2017, n. 8, § 19) hanno concluso per la natura sostanziale della norma, assumendo che la stessa non sia applicabile alle controversie in corso su accertamenti anteriori alla sua entrata in vigore. È, stata, quindi, esclusa la natura interpretativa e, di conseguenza, ogni possibile applicazione retroattiva (alla data di entrata in vigore, ovvero al 3 dicembre 2016).
Per quanto concerne, poi, i recuperi a tassazione riferiti ai movimenti effettuati su conti correnti intestati ai possessori di redditi di lavoro autonomo, la presunzione è delimitata ai soli versamenti.
Il legislatore fiscale ha, infatti, recepito (con il summenzionato D.L. n. 193 del 2016 e in modifica del testo dell'art. 32 cit.) le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale che, con sentenza del 24 settembre 2014, n. 228, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della normativa in esame nella parte in cui estendeva la presunzione anche ai compensi, in quanto "lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell'ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito".
È, così, venuta meno la presunzione di imputazione dei prelevamenti ai ricavi, non essendo più proponibile (neppure per le annualità anteriori) l'equiparazione logica tra attività d'impresa e attività professionale ai fini della presunzione de qua. In questi casi, dunque, grava sull'Amministrazione finanziaria l'onere di dimostrare che i prelevamenti dal conto corrente bancario siano stati utilizzati dal libero professionista per acquisti inerenti alla produzione del reddito.
Quanto ai versamenti, rilevati su conti correnti intestati al lavoratore autonomo, resta, però, invariata la presunzione legale, sicché il contribuente è onerato di provare in modo analitico la loro estraneità a fatti imponibili (cfr. Cass. 15 marzo 2021, n. 7164).
Si segnala, da ultimo, che recentemente è stata sottoposta all'attenzione della Corte costituzionale un'ulteriore ipotesi di esclusione relativa alle operazioni bancarie di prelievo. Con ordinanza del 26 aprile 2021 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 13 ottobre 2021) la Commissione Tributaria Provinciale di Arezzo ha, infatti, sollevato una nuova questione di legittimità in relazione all'art. 32 cit., sostenendo l'inapplicabilità della presunzione in parola ai prelevamenti effettuati dall'imprenditore individuale in contabilità semplificata, in continuità con i principi espressi dalla sopra menzionata sentenza n. 228 del 2014.

Prova contraria
La giurisprudenza di legittimità ha svolto diversi chiarimenti in ordine all'operatività della presunzione in commento e, in particolare, in ordine all'onere della prova gravante sul contribuente.
Più nel dettaglio, è stato precisato che la presunzione legale in favore dell'Erario non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti, dall'art. 2729 c.c., per le presunzioni semplici. Pertanto, la stessa può essere superata dal contribuente solo attraverso una prova analitica, idonea a dimostrare (con riferimento ad ogni singolo versamento o prelievo) che le movimentazioni rilevate non attengono ad operazioni imponibili (cfr. ex multis Cass. 10 marzo 2021, n. 6574). Tale prova, inoltre, non può risolversi in mere affermazioni astratte o in una prova generica circa ipotetiche distinte causali dell'affluire di somme sui conti correnti (cfr. ex pluribus 19 agosto 2015, n. 16948).
È, però, ritenuto possibile che la prova contraria fornita dal contribuente sia di tipo presuntivo. A tal riguardo, è stato, per l'appunto, chiarito che "in mancanza di espresso divieto normativo e per il principio di liberta` dei mezzi di prova, il contribuente può fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici" (cfr. ex multis Cass. 3 giugno 2021, n. 15353; Cass. 23 settembre 2021, n. 25819).
Non mancano, tuttavia, posizioni contrarie a tale assesto. In taluni casi, infatti, la stessa Corte di Cassazione ha, all'opposto, ritenuto che alla presunzione relativa di legge debba essere contrapposta una prova, non un'altra presunzione semplice ovvero una mera affermazione di carattere generale, negando, altresì, la possibilità di ricorrere all'equità (cfr., Cass., 24 luglio 2012, n. 13035).
Da ultimo, è ammessa la possibilità di fornire la prova contraria anche tramite la produzione di dichiarazioni rese da soggetti terzi, con la precisazione che queste "hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e, qualora rivestano i caratteri di gravita`, precisione e concordanza di cui all'art. 2729 cod. civ., danno luogo a presunzioni" (cfr. Cass. 14 luglio 2021, n. 20033). A tal fine, quindi, è necessario che le dichiarazioni siano supportate da ulteriori elementi probatori.
In ogni caso, laddove il contribuente fornisca prova analitica della natura delle movimentazioni sui propri conti correnti, in modo tale da superare la presunzione, spetta, poi, al giudice procedere ad una "valutazione altrettanto analitica di quanto dedotto e documentato, non essendo a tal fine sufficiente una valutazione delle suddette movimentazioni per categorie o per gruppi" (cfr. Cass. 3 dicembre 2020, n. 27642).
Estensione dell'operatività della presunzione di imponibilità
La giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, prospettato ulteriori chiarimenti in ordine al perimetro di applicazione della presunzione in commento.
In particolare – partendo dalla portata, sul piano probatorio, della regola presuntiva prevista dalla norma (presunzione juris tantum) – è stata affermata la legittima applicazione della presunzione de qua anche ai soggetti che non rivestano la qualifica di imprenditore o di professionista. Secondo questo orientamento, l'utilizzazione degli accertamenti bancari non è subordinata alla prova che il contribuente eserciti attività d'impresa o di lavoro autonomo. I dati risultanti dai conti correnti bancari possono, quindi, essere utilizzati sia per dimostrare l'esistenza di un'eventuale attività occulta (impresa, arte o professione), sia per quantificare il reddito ricavato, incombendo al contribuente l'onere di fornire prova contraria (cfr. Cass. 23 settembre 2021, n. 25812).
Inoltre, secondo un consolidato orientamento della Suprema Corte, le indagini finanziarie possono assumere rilievo, ai fini dell'applicazione della presunzione de qua, anche laddove le stesse involgano conti correnti formalmente intestati a soggetti terzi (e.g., congiunti del contribuente persona fisica, o amministratori di società).
A titolo esemplificativo, si è ritenuto che le movimentazioni riscontrate sui conti dei soci di società di persone, partecipata da familiari o congiunti, possano essere riferite alla società medesima, in difetto di specifiche ed analitiche dimostrazioni di segno opposto (cfr. Cass. 20 marzo 2019, n. 7758). Tale impostazione è estesa anche alle società di capitali ove sussistano elementi (quali la ristretta compagine sociale ed il rapporto di stretta contiguità familiare tra l'amministratore, o i soci, ed i congiunti intestatari dei conti bancari sottoposti a verifica) tali da indurre a ritenere che le movimentazioni sui conti correnti dei soci (o dei loro familiari) siano, in realtà, riferibili alla società medesima (cfr. Cass. 11 marzo 2021, n. 6867).
Rispetto a tale casistica, tuttavia, non si riscontra una posizione univoca in ordine all'onere della prova gravante sull'Amministrazione finanziaria. In talune pronunce (cfr. ex pluribus Cass. 18 dicembre 2019, n. 33596) si è, infatti, stabilito che l'ufficio debba provare l'intestazione fittizia a terzi dei conti correnti (e.g., la riconducibilità alla società delle somme transitate nei conti correnti personali), in altre (cfr. ex multis Cass. 8 settembre 2021, n. 24208; 6 ottobre 2011, n. 20449) la Corte ha ritenuto sufficiente, a fini probatori, il solo dato presuntivo della relazione di parentela o commerciale (sul punto vd. altresì: circolare dell'Agenzia delle entrate 19 ottobre 2006, n. 32, § 5.2.; circolare Guardia di finanza n. 1/2018).

Considerazioni conclusive
In ultima analisi, dunque, l'orientamento della giurisprudenza di legittimità, affermatosi nel corso degli anni, sostiene un'esegesi delle norme in rassegna non propriamente favorevole al contribuente.
Come detto, la presunzione in commento ha un carattere fortemente pervasivo e assurge a presunzione legale (relativa) in favore dell'Erario che può essere superata soltanto con prove rigorose e analitiche. La prova che deve essere contrapposta dal contribuente non può, quindi, concretarsi in mere affermazioni di carattere generale né è possibile ricorrere all'equità (cfr. Cass. 4 maggio 2005, n. 18016).
A fronte di un'impostazione rigorosa, non sussiste, però, alcun obbligo di contraddittorio preventivo (vd. sul punto Cass. 27 febbraio 2019, n. 5777). Inoltre, non è ammessa la deduzione presuntiva di oneri e costi (fatta eccezione dei soli casi di accertamento induttivo "puro") per cui grava sempre sul contribuente l'onere di provare l'esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l'Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario (cfr. Cass. 22 settembre 2020, n. 19774). Particolarmente sfavorevole è, poi, come detto, la posizione assunta dalla Suprema Corte in ordine all'estendibilità delle indagini finanziarie effettuate sui conti di soggetti terzi (e.g. sul conto dei soci). Anche in questi casi, l'onere della prova è a carico esclusivo del contribuente.
In sintesi, dunque, nonostante le aperture mostrate, come la riconosciuta possibilità di contrapporre all'accertamento del fisco presunzioni semplici, la linea interpretativa tratteggiata dalla Corte di Cassazione – a fronte di una norma già di per sé stessa fortemente penalizzante – incrina ulteriormente la posizione difensiva del contribuente. Quest'ultimo, di fatti, è gravato dell'onere di fornire prova contraria anche in presenza di accertamenti fondati sull'abbinamento di più presunzioni o automatismi (si veda il caso degli accertamenti su conti correnti intestati a terzi). Ciò, peraltro, nell'ambito di un processo, quello tributario, sprovvisto di una vera e propria fase istruttoria e i cui esiti risultano del tutto incerti e aleatori.

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Sezione 6 Tributaria