L’abitazione a uso ufficio fa discutere sull’Imu
La concessione in locazione a “uso ufficio” di un’unità abitativa accatastata A2 può legittimarne la variazione catastale in A10, giustificando la pretesa comunale a una maggiore Imu parametrata alla nuova rendita? Per alcuni Comuni, sì. Il cambio d’uso dell’immobile, anche senza opere, rileverebbe automaticamente ai fini del nuovo classamento; e legittimerebbe l’accertamento Imu anche nelle more della variazione catastale (da eseguirsi a cura degli uffici delle Entrate/Territorio) e fino ai 5 anni precedenti.
Questo tipo di pretese è spesso collegato alla richiesta dei Comuni ex comma 336 legge 311/2004, ai proprietari delle unità immobiliari non più coerenti con i classamenti per intervenute variazioni edilizie, di presentare l’aggiornamento catastale. E gli enti locali, spesso, ritengono comprese, tra tali variazioni rilevanti catastalmente, anche le modifiche di destinazione d'uso “senza opere” (a causa del rilievo urbanistico che assumono, ex articolo 23-ter del Dpr 380/2001). Perciò, la contestazione immediata della maggior Imu relativa diventa quasi una naturale conseguenza.
Variazione catastale legata a nuove opere
In realtà, in base agli articoli 61 e 62 del Dpr 1142/1949, il classamento dell’immobile è vincolato alle caratteristiche costruttive e oggettive, influenti sul reddito e determinanti la sua “destinazione ordinaria”. Il mutamento d’uso assume rilievo catastale solo se coincidente con modifiche intrinseche, performanti in punto redditività, con esclusione dei cambi d’uso transitori, non accompagnati da opere edilizie significative (Cassazione 12025/2015). La stessa denuncia di variazione della destinazione è obbligatoria, per legge, solo se idonea a determinare un mutamento di classe (articoli 17 e 20, Rdl 652/1939). Anche le circolari 10/T/2005 e 1/T/2006 attestano che, ai fini del classamento, contano innanzitutto gli interventi edilizi ex articolo 3 del Dpr 380/2001 (manutenzioni ordinarie e straordinarie, risanamenti conservativi, ristrutturazioni); e il mutamento d'uso rileva solo se idoneo a incrementare il valore della rendita in misura «non inferiore al 15%».
È difficile, quindi, immaginare che i tecnici delle Entrate possano riscontrare, in un immobile non contrassegnato da opere migliorative, elementi attestanti un incremento di redditività così significativo; e che i Comuni siano in grado di renderne prova, a giustificazione della maggiore pretesa. Senza contare che ai Comuni, inoltre, è precluso l'accertamento incidentale dei profili catastali, di competenza delle Entrate (Ctp Treviso 151/3/2009). Pertanto non possono presumere l’esistenza di elementi concreti, giustificanti un diverso classamento. Inoltre, la nuova attribuzione catastale deve essere confermata dagli uffici competenti ed è, comunque, contestabile davanti alla Ctp.
I limiti dei poteri comunali
È evidente, dunque, che tale pretesa comunale ai fini Imu presenta diversi profili critici. Stando alle norme vigenti in materia di poteri di accertamento degli enti locali (articolo 11, Dlgs 504/92, richiamato dall’articolo 7, comma 9, Dlgs 23/2011; e legge 296/2006, articolo 1, commi da 161 a 170), manca una puntuale disciplina di legge dei presupposti entro i quali i Comuni possono rettificare induttivamente le dichiarazioni Imu. L’ente ha senz’altro poteri istruttori ai fini della liquidazione delle dichiarazioni Imu presentate e della rettifica d’ufficio delle dichiarazioni omesse. Ma i poteri regolamentari in materia tributaria (articolo 52, Dlgs 446/1997) non sembra delineino, in autonomia, i presupposti per accertamenti induttivi.
Il cambio d’uso può giustificare il riclassamento nel caso del fabbricato rurale, perché la cessazione dell’attività agricola rileva di per sé (vedasi la recente Cassazione 4581/2019); mentre, negli altri casi, l’assenza di opere può limitare fortemente il Comune a percorrere la via del comma 336 legge 311/2004.