Penale

L’aggravante dell’odio razziale sussiste se l’azione si collega a un pregiudizio manifesto di inferiorità

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di Giuseppe Amato

La circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso è configurabile non solo quando l'azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulti intenzionalmente diretta a rendere percepibile all'esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell'immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell'accezione corrente, a un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell'agente. Lo dice la Cassazione penale con la sentenza 7859/2018. Tale circostanza, proseguono i giudici della quinta sezione, è configurabile per il solo fatto dell'impiego di modalità di commissione del fatto consapevolmente fondate sul disprezzo razziale (ciò che nella specie è stato ritenuto a carico dell'imputato di un reato di diffamazione commesso in danno di una politica di origine africana, che era stata assimilata a una “scimmia antropomorfa”).

Come è noto, l'articolo 3 del decreto legge 26 aprile 1993 n. 122, convertito dalla legge 25 giugno 1993 n. 205, prevede una circostanza aggravante per i reati punibili con pena diversa da quella dell'ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, naziona­le, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l'attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità.

La Cassazione ha ritenuto di apprezzarne qui la sussistenza valorizzando il rilievo che l'espressione utilizzata costituiva manifestazione di “disprezzo razziale”, ponendosi in linea con il principio secondo cui l'aggravante in questione è integrata quando - anche in base alla Convenzione di New York del 7 marzo 1966, resa esecutiva in Italia con la legge n. 654 del 1975 - l'azione si manifesti come consapevole esteriorizzazione, immediatamente percepibile, nel contesto in cui è maturata, avuto anche riguardo al comune sentire, di un sentimento di avversione o di discriminazione fondato sulla razza, l'origine etnica o il colore e cioè di un sentimento immediatamente percepibile come connaturato alla esclusione di condizioni di parità, non essendo comunque necessario che la condotta incriminata sia destinata o, quanto meno, potenzialmente idonea a rendere percepibile all'esterno - e, quindi, a suscitare - il riprovevole sentimento o, comunque, il pericolo di comportamenti discriminatori o di atti emulatori, anche perché ciò comporterebbe l'irragionevole conseguenza di escludere l'aggravante in questione in tutti i casi in cui l'azione lesiva si sia svolta in assenza di terze persone (sezione V, 2 marzo 2015, M.).

Sul tema va ricordato come di recente si sia precisato che la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso è configurabile non solo quando l'azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulti intenzionalmente diretta a rendere percepibile all'esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell'immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell'accezione corrente, a un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, non avendo rilievo la mozione soggettiva dell'agente (sezione V, 28 novembre 2017, Mancini).

Corte di cassazione – Sezione V penale – Sentenza 19 febbraio 2018 n. 7859

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