L'avvocato non può offendere anche se è offeso
Secondo il Cnf l'espressione tacciata di offensività "riveste di per sé rilievo deontologico a prescindere dalla veridicità dei fatti che hanno dato luogo alla presentazione dell'esposto"
L'avvocato ha il dovere di comportarsi in ogni situazione, nella vita professionale come in quella privata, con la dignità e il decoro imposti dalla funzione che l'avvocatura svolge nella giurisdizione. Per cui anche se offeso o in stato d'ira o agitazione deve astenersi dall'"offendere" a sua volta, se vuole evitare una sanzione disciplinare non trovando applicazione l'esimente prevista dall'articolo 599 c.p. E' quanto ha affermato il Consiglio Nazionale Forense (nella sentenza n. 42/2020) rigettando il ricorso presentato da un legale avverso la sanzione disciplina della censura inflittagli dal proprio Coa.
La vicenda
La vicenda ha inizio con l'apertura del procedimento disciplinare da parte del Consiglio dell'ordine degli avvocati di Padova nei confronti del legale per avere lo stesso, in un ricorso d'urgenza in materia di lavoro, tra l'altro, usato espressioni sconvenienti ed offensive nei confronti della controparte. Ritenendo tali espressioni non scriminate da esigenze difensive "atteso che il compito dell'avvocato è quello di ottemperare le esigenze di dialettica processuale e adempimento del mandato difensivo potendo utilizzare fermezza e toni accesi ma nel rispetto del dovere di correttezza" gli infliggeva la sanzione disciplinare della censura.
Il professionista non ci stava e ricorreva innanzi al CNF per ottenere la nullità della decisione adottata dal COA per violazione del diritto di difesa e infondatezza delle censure addebitate.
Per il CNF, tuttavia, il ricorso è totalmente infondato e va rigettato, ritenendo che il COA territoriale abbia "utilizzato il proprio potere svolgendo una corretta valutazione deontologica della condotta posta in essere dal ricorrente ed espletando così il compito allo stesso attribuito dalla legge".
La decisione
Nello specifico ha ricordato il CNF che la giurisprudenza domestica è costante nel ritenere che l'espressione tacciata di offensività "riveste di per sé rilievo deontologico a prescindere dalla veridicità dei fatti che hanno dato luogo alla presentazione dell'esposto, né questa risulta discriminata dalla provocazione altrui ovvero dal diritto-dovere di difesa".
Infatti, benchè l'avvocato possa e debba utilizzare "fermezza e toni anche accesi" nel sostenere la difesa della parte assistita, tale potere/dovere trova un limite nei doveri di probità e lealtà i quali "non gli consentono di trascendere in comportamenti non improntati a correttezza e prudenza che ledono la dignità della professione forense". Ciò perché la libertà riconosciuta alla difesa non può certo tradursi in una "licenza" ad offendere, usando forme espressive "sconvenienti ed offensive nella dialettica processuale, con le parti e con il giudice, ma deve rispettare i vincoli imposti dai doveri di correttezza e decoro".
Del resto, l'avvocato, sentenzia infine il Consiglio, ha il dovere ai sensi dell'articolo 52 Ncdf, di comportarsi in ogni occasione "con la dignità e con il decoro imposti dalla funzione che l'avvocatura svolge nella giurisdizione e deve, in ogni caso, astenersi dal pronunciare espressioni sconvenienti ed offensive, la cui rilevanza deontologica non è esclusa dalla provocazione altrui, né dallo stato d'ira o d'agitazione che da questa dovesse derivare che, al più, rileva solo ai fini della determinazione della sanzione".