Casi pratici

L'evoluzione della disciplina dell'uso aziendale, aspetti dirimenti di una "fonte sociale" che fa ancora discutere

Formazione dell'uso aziendale

di Paolo Patrizio

la QUESTIONE
Che cos'è l'uso aziendale ? Come si costituisce un uso aziendale ? Qual è l'inquadramento dogmatico dell'istituto ? È possibile revocare un uso aziendale ? In che modo?

L'istituto in commento trae origine da un determinato comportamento del datore di lavoro, non previsto dalla legge né dalla contrattazione collettiva applicata (ad esempio, il riconoscimento di trattamenti economici migliorativi quali gratifiche, premi, indennità) che, se volontariamente e spontaneamente adottato e ripetuto nel tempo, può determinare l'insorgenza di un cd. "uso aziendale", integrativo del rapporto di lavoro e dotato di efficacia vincolante anche per il futuro e per una maggiore platea di destinatari.
Per la Corte di Cassazione, invero, "La reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro, nei confronti dei propri dipendenti, integra, di per se', gli estremi dell'uso aziendale (cfr Corte di Cassazione civ., Sez. L, Ordinanza 22 maggio 2020, n. 9476), posto che "...Per la formazione degli usi aziendali, riconducibili alla categoria degli usi negoziali, è necessaria unicamente la sussistenza di una prassi generalizzata — che si realizza attraverso la mera reiterazione di comportamenti posti in essere spontaneamente e non già in esecuzione di un obbligo — che riguardi i dipendenti anche di una sola azienda e che comporti per essi un trattamento più favorevole rispetto a quello previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva ..." (cfr Corte di Cassazione|Sezioni Unite n. 3101/1995) e " .. rileva il mero fatto giuridico della reiterazione del comportamento considerato [ nei confronti di una collettività più o meno ampia di destinatari ] purché provvisto del requisito della spontaneità, la cui sussistenza deve risultare a posteriori, cioè dall'apprezzamento globale della prassi già consolidata, senza che possa aversi riguardo all'atteggiamento psicologico proprio di ciascuno degli atti di cui questa si compone e con la conseguenza che alla formazione suddetta risulta di ostacolo l'obiettiva esistenza di un obbligo giuridico pregresso — incompatibile con la spontaneità della prassi, quale che sia il convincimento soggettivo in ordine all'obbligo medesimo —, a prescindere da qualsiasi scrutinio circa l'intento sotteso a ciascuno degli atti reiterati, restando, quindi, irrilevante che si tratti o no di un intento negoziale. ( cfr Cassazione civ., Sez. Unite n. 3134/1994).

I caratteri fondanti l'uso aziendale, dunque, vengono generalmente ricondotti:a) alla spontaneità del comportamento datoriale, siccome posto in essere in assenza di qualsivoglia condizionamento (reale o putativo) atto ad ingenerare anche la mera convinzione della obbligatorietà dell'azione;b) alla reiterazione del comportamento nel tempo, tale da giustificare nel personale destinatario l'affidamento sulla costanza e continuità della condotta datoriale, con elisione di ogni parvenza di concessione precaria o saltuaria;c) alla persistenza del presupposto determinante della concessione datoriale dell'uso aziendale, in stretta connessione con l'istituto della presupposizione, quale condizione implicita a carattere essenziale.

Inquadramento giuridico dell'uso aziendale

Sul punto, si sono succeduti, in giurisprudenza, tre orientamenti.Secondo un primo orientamento, più risalente, gli usi aziendali sono inquadrabili tra gli usi negoziali o di fatto, ex art. 1340 c.c., suscettibili di inserzione automatica, come clausola d'uso, nel contratto individuale di lavoro, con effetto integrativo del contenuto delle obbligazioni per i soli lavoratori nei cui confronti l'uso si è formato, senza estensibilità alla generalità dei lavoratori o ai nuovi assunti che in futuro si fossero trovati nelle stesse condizioni (cfr., Cassazione 24 maggio 1991, n. 5903; Cassazione 13 dicembre 1986, n. 7483) e con mantenimento perpetuo dell'operatività e vincolatività dell'uso, indipendentemente da contrarie pattuizioni di fonte collettiva.

Conferma di tale impostazione, la si rinviene, invero, nelle ben note pronunce della Cassazione a Sezioni Unite (del 30 marzo 1994, n. 3134 e del 17 marzo 1995, n. 3101), per cui «Le erogazioni del datore di lavoro non imposte da legge, né dal contratto collettivo, né da espresse pattuizioni individuali devono considerarsi come facenti parte dell'ordinaria retribuzione se corrisposte continuativamente ad una generalità di dipendenti, atteso che esse – per effetto della prassi, anche se limitata ad una sola azienda – assumono la natura di emolumento dovuto per uso aziendale, riconducibile alla natura degli usi negoziali o di fatto, i quali debbono ritenersi inseriti (ex articolo 1340 c.c.) non già nel contratto collettivo (alle cui eventuali successive modifiche sono insensibili), ma – salva un'espressa volontà contraria delle parti – in quello individuale, di cui integrano il contenuto in senso modificativo o derogativo ("in melius" per il lavoratore) della contrattazione collettiva».Senonchè ben presto emersero le evidenti criticità di tale impostazione giurisprudenziale, sintetizzabili, in particolare: sulla discutibile limitazione applicativa dell'uso negoziale nei confronti dei soli lavoratori in servizio all'epoca in cui l'uso aziendale era sorto, senza estendersi ai nuovi o futuri assunti; sul disconoscimento della valenza collettiva dell'uso aziendale; sulla ritenuta irrevocabilità o immodificabilità delle clausole d'uso inserite nei contratti individuali da parte di qualsivoglia previsione collettiva posteriore, in spregio ai consueti dettami in punto di successione e gerarchia delle fonti e dei connessi rapporti di determinazione pattizia di matrice sindacale.

Tali censure consentirono, pertanto, il celere sviluppo di un secondo orientamento, per il quale "Per spiegare l'efficacia automatica dell'uso aziendale nei confronti dei singoli contratti individuali di lavoro, sia nell'ipotesi di un comportamento generalizzato che in quella del comportamento ristretto a singole categorie o ad eventi determinati - senza poter ricorrere all'art. 1340 codice civile (applicabile solo in presenza di un uso preesistente al momento della conclusione del contratto) e senza che sia stata convenzionalmente concordata tale modifica - deve necessariamente ritenersi che l'uso aziendale (di carattere negoziale e non normativo) fa sorgere un obbligo unilaterale di carattere collettivo, che agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, sostituendo alle clausole contrattuali e a quelle collettive in vigore quelle più favorevoli dell'uso aziendale (art. 2077 c.c.)».

Secondo questo nuovo orientamento, dunque, le clausole d'uso si inseriscono nei contratti individuali per effetto di un meccanismo di disciplina collettiva simile a quello integrativo di matrice aziendale e non per effetto di un meccanismo genetico interindividuale. Ne consegue, che i trattamenti migliorativi da uso aziendale, una volta ricondotti in un alveo genetico di carattere collettivo, perdono le garanzie di "insensibilità" (ex articolo 2077, 2° comma, c.c.), o "impermeabilità", rispetto alle vicende delle successioni temporali delle fonti collettive (contratti aziendali e nazionali) e ne seguono conseguentemente le sorti, con effetti di caducazione o di revoca o di sostituzione da parte di fonti collettive contemplanti trattamenti anche in peius (Cass. 18 settembre 2007 n. 18351; Cassazione 18 dicembre 1998, n. 1271; Cassazione 18 febbraio 1998, n.1735).

Con il tempo, tuttavia, l'inquadramento dogmatico dell'istituto ha subito una ulteriore evoluzione, approdando alla qualificazione dell'uso aziendale nel novero delle cd. "fonti sociali", rivolte a una collettività impersonale di lavoratori, come le fonti collettive (cfr. Maniscalco-careri, «Usi aziendali: panorama giurisprudenziale e ricadute applicative», in Ventiquattrore Avvocato, 2010, n. 9, 28, a cui si rimanda per un approfondimento sulla formazione dell'uso aziendale) e che agiscono sul piano dei rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, sostituendo alle clausole contrattuali e a quelle collettive in vigore, quelle più favorevoli dell'uso aziendale.

Per il nuovo indirizzo della Suprema Corte, infatti ".. è tra le fonti sociali che deve essere inserito (…) l'uso aziendale (…) costituente quindi fonte di obbligazione e di regolamentazione collettiva dei rapporti di lavoro ai sensi degli articoli 1374 e 1173 codice civile. Il trattamento di miglior favore della collettività dei dipendenti infatti, al pari del regolamento d'impresa, costituisce anch'esso espressione del potere di iniziativa economica del datore di lavoro, attuato con atti volontari che rappresentano una fonte di obbligazioni quando integrano la fattispecie di uso aziendale, che si risolve in un nuovo assetto di regolamentazione collettiva dei rapporti di lavoro. La natura di fonte sociale, e quindi collettiva, dell'uso aziendale, desunta dai principi generali dell'ordinamento dei rapporti di lavoro, comporta che sia liberamente modificabile da altre fonti sovra ordinate di carattere collettivo (i contratti nazionali e aziendali) anche in pejus; la modifica dell'uso può anche essere l'effetto di accordi individuali (poiché il limite di cui agli articoli 2077 e 2113, co. 1°, c.c., opera solo in rapporto ai contratti collettivi), ma limitatamente alle parti stipulanti (in mancanza dell'agente sindacale, gli accordi restano individuali anche se conclusi con tutti i dipendenti interessati: cfr. Cassazione n. 2022/1999, che li definisce contratti individuali plurimi). Non però da un successivo uso aziendale di segno opposto (come aveva erroneamente affermato Cassazione n. 2406/1994, n.d.r.), sia perché la nozione ontologica di uso aziendale presuppone un trattamento di miglior favore, sia perché non è giuridicamente possibile che si formi un uso in virtù di comportamenti che sono qualificabili come inadempimento di preesistenti obbligazioni (…).

Nei sensi precisati, la Corte conferma dunque l'affermazione già contenuta nel suo già menzionato precedente (Cass. n. 9690/'96), secondo cui l'uso aziendale agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, affermazione condivisa nella sostanza anche da altre decisioni che hanno ritenuto gli usi aziendali governati dal principio della successione temporale di più accordi aziendali (cfr. Cassazione 1916/1986 e le altre già citate)».

Non pare, tuttavia, potersi riconoscere una netta e definitiva prevalenza di un indirizzo rispetto agli altri, visto e considerato che il primo orientamento, assolutamente maggioritario fino a metà anni '90, sembrava scomparso ma continua invece ad essere richiamato da parte della Suprema Corte, seppur sporadicamente (vedasi ad esempio Cass. civ., Sez. lav., 13 dicembre 2012, n. 22927); mentre il secondo ed il terzo orientamento sembrano invece alternarsi con maggior frequenza nella giurisprudenza più recente (vedasi Cass. civ., 11 marzo 2010, n. 5882, Cass. civ., Sez. lav., 8 marzo 2010, n. 8342, Cass. 1°agosto 2016, n. 15995 e Cass. 19 febbraio 2016, n. 3296, Cass. 23 febbraio 2017, n. 4662, Cass. civ., Sez. L, 15 marzo 2021| n. 7221, Cass. civ., Sez. L, Ordinanza22 maggio 2020, n. 9476 e, nel merito da Tribunale Udine 22 marzo 2017, n. 102, Tribunale di Venezia, Sez. L, 12 giugno 2019| n. 393, Tribunale di Roma civ., Sez. L, 23 gennaio 2019, n. 601 , Corte d'Appello di Roma, civ., Sez. L, 3 dicembre 2019, n. 3498).

Deve, nondimeno, rilevarsi come la ricostruzione dell'uso aziendale quale fatto-fonte riconducibile alle c.d. "fonti sociali", confermata, seppur solo in obiter dictum, da parte delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. civ., Sez. Un., 13 dicembre 2007, n. 26107), sia stata ribadita in più pronunce dalla Suprema Corte, laddove è stata consacrata l'appartenenza dell'uso aziendale (i.e. la reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti) alle fonti sociali «tra le quali vanno considerati sia i contratti collettivi, sia il regolamento d'azienda e che sono definite tali perché, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, in quanto dirette a conseguire un'uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un'azienda» (Cass. 14 novembre 2017, n. 26869).

A tal proposito sembra opportuno richiamare, in tema di onere probatorio, l'approdo sancito nella sentenza Cass. 22 novembre 2018, n. 30260, la quale, aderendo all'orientamento di cui sopra, specifica che: «le richieste caratteristiche di reiterazione nel tempo e di generalità del comportamento devono essere oggetto di specifica allegazione (e conseguente prova)», con la conseguenza che i lavoratori che invochino la sussistenza di un uso aziendale sono onerati di allegare e, quindi, provare specificamente le caratteristiche di reiterazione nel tempo e di generalità che l'uso, per essere definito tale, deve avere.

La revocabilità di un uso aziendale: casi, termini e condizioni

Come evidenziato in premessa, i presupposti di revocabilità di un determinato uso aziendale risentono, a tutt'oggi, di una giurisprudenza diversificata sulla base del richiamo all'uno piuttosto che all'altro inquadramento dogmatico dell'istituto.

Senonchè, appare opportuno, prima facie, esemplificare le tre principali causali in termini di revoca dell'uso aziendale, ovvero:

a) la fonte collettiva posteriore, posto che la domanda più ricorrente ha riguardato la possibilità, per un contratto collettivo (nazionale, territoriale o aziendale), di modificare e revocare un uso aziendale (salvi i diritti quesiti del lavoratore).Ebbene, mentre per il primo filone più risalente, l'uso aziendale sarebbe totalmente impermeabile a successive modificazioni in peius da parte dei contratti collettivi (sul presupposto che l'uso negoziale si ritiene inserito ex art 1340 cc non già nel contratto collettivo - alle cui eventuali successive modifiche resta insensibile - ma in quello individuale), per i successivi orientamenti, invece, l'uso aziendale sarebbe modificabile sia in melius che in peius da parte dei contratti collettivi successivi, poichè, «gli accordi aziendali non contrastano con pregressi usi aziendali, che possono essere modificati, anche in senso peggiorativo per i dipendenti (salvo i diritti quesiti, nella specie ritenuti salvaguardati) da accordi sindacali successivi» (così Cass. civ., 8 maggio 2012, n. 6978), posto che secondo tale orientamento l'uso aziendale costituisce fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo che agisce sul piano dei rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo e ben può essere pertanto modificato da un accordo collettivo successivo» (così Cass. 19 febbraio 2016, n. 3296, Cass. 1° agosto 2016, n. 15995 e Cass. 23 febbraio 2017, n. 4662).

b) L'accordo tra datore di lavoro e lavoratore. In secondo luogo, viene in rilievo l'opzione di modificabilità dell'uso aziendale attraverso un accordo individuale tra datore di lavoro e lavoratore.In tale ipotesi, infatti, non opererebbe il limite di cui all'art. 2077 c.c., secondo cui «Le clausole difformi dei contratti individuali, preesistenti o successivi al contratto collettivo, sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro», trattandosi di una disposizione applicabile soltanto in rapporto ai contratti collettivi (cfr. ancora Liebman, «Gli usi aziendali nella disciplina del rapporto di lavoro», in Mass. giur. lav., 2000, VI, 593).Tuttavia, il lavoratore potrebbe comunque invocare l'applicabilità dell'art. 2113 comma 1 c.c., secondo cui «Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile, non sono valide», salvo le stesse siano effettuate alternativamente: in sede giudiziale (artt. 185 e 420 c.p.c.), presso le commissioni di conciliazione istituite presso la Direzione Territoriale del lavoro (ora Ispettorato Territoriale del Lavoro) (art. 411 c.p.c.), «presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative» (art. 412 ter c.p.c.) ovvero «innanzi al collegio di conciliazione e arbitrato irrituale» di cui all'art. 412 quater c.p.c.c) Il mutamento della situazione di fatto. Viene in questo caso in rilievo l'ipotesi della modifica del presupposto costitutivo dell'uso aziendale, in stretta connessione con l'istituto della presupposizione, quale condizione implicita dell'uso aziendale.Più precisamente, tale situazione si ravvisa quando «una determinata situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso - pur in mancanza di un espresso riferimento a essa nelle clausole contrattuali - come presupposto condizionante il contratto» (così Trib. Reggio Calabria 18 febbraio 2009, in Giur. Merito 2009, 2761, proprio con riferimento a un uso aziendale). Si tratta quindi di una condizione tacita che «assurge a presupposto della volontà negoziale e che deve rimanere assolutamente estranea alla sfera giuridica dei contraenti» (così Trib. Nola, 27 marzo 2008, in Giur. Merito 2008, 2205, sempre con riferimento a un uso aziendale), poiché rappresenta un «presupposto obiettivo, consistente in una condizione di fatto il cui venir meno o il cui verificarsi sia del tutto indipendente dall'attività e dalla volontà dei contraenti» (così Cass. civ., Sez. lav., 21 novembre 2001, n. 14629).

Si pensi, ad esempio, al datore di lavoro che ha sempre riconosciuto ai propri dipendenti una giornata di riposo in occasione di una ricorrenza locale del Comune dove l'impresa ha sede, ricorrenza che è sempre occorsa in un giorno feriale. In questo caso, se il Comune dovesse collocare la stessa festa nella giornata di domenica (di riposo per i dipendenti), il presupposto dell'uso aziendale - consistente nella possibilità di prendere parte alla ricorrenza - verrebbe meno e, conseguentemente, tale uso aziendale potrebbe essere revocato dal datore di lavoro.

d) l'intervento di un uso aziendale di segno opposto. Infine, viene in rilievo il caso dell'adozione, da parte datoriale, di un uso aziendale di segno opposto quale ipotesi di revoca implicita dell'uso precedente .

Ebbene, mentre secondo il primo orientamento giurisprudenziale sopra citato, l'uso aziendale sarebbe modificabile in peius da un uso aziendale di segno opposto, ossia da un comportamento unilaterale del datore di lavoro di contenuto contrario, la giurisprudenza oggi prevalente (su tutte, cfr. ancora Cass. civ., Sez. Lav., 17 febbraio 2000, n. 1773) invece, ha ritenuto l'uso aziendale non liberamente modificabile da un successivo uso aziendale di contenuto opposto, non essendo ammissibile la formazione di un uso in ragione di comportamenti che costituiscano inadempimento di preesistenti obbligazioni (e così, ad esempio, un datore di lavoro che ha sempre riconosciuto ai suoi dipendenti una gratifica, sino a costituire un uso aziendale, non può poi sostenere che lo stesso uso sia venuto meno perché negli ultimi anni ha omesso di corrisponderla).

Considerazioni conclusive

Il tema della regolamentazione del fenomeno integrativo posto dalla fattispecie dell'uso aziendale ha, negli anni, messo a dura prova l'interprete, in considerazione dell'altalenante presenza di pronunce e riferimenti a discipline concorrenti, inevitabilmente regolatrici del medesimo fenomeno negoziale.

La summenzionata tripartizione dogmatica e giurisprudenziale, ancora lontana dal trovare una stabile delimitazione operativa, stenta a posizionarsi su di un ancoraggio ermeneutico di certa derivazione, se pur l'attuale assetto interpretativo in materia sembra orientarsi, in maniera più o meno stabile, nel ricondurre il comportamento reiterato nel novero dei comportamenti collettivi concludenti, in cui la dichiarazione espressa di volontà è sostituita dalla prassi aziendale, che determina l'ultrattività dell'efficacia del vincolo usuale anche nei confronti di soggetti diversi dai diretti destinatari della condotta.

Ne deriva, che la stessa modificabilità dell'uso negoziale risente dell'impostazione dogmatica di fondo in merito alla riconducibilità dell'istituto in commento all'una o all'altra soluzione interpretativa, ad oggi validando l'orientamento maggioritario non soltanto l'ammissibilità di una deroga anche peggiorativa degli usi aziendali da parte della disciplina collettiva, rientrando il fenomeno nel più generale sistema della successione dei contratti collettivi nel tempo, ma anche della disdetta unilaterale da parte del datore di lavoro, in aperto contrasto con l'idea della insensibilità dell'uso negoziale incorporato nell'assetto contrattuale individuale finanche rispetto alle pattuizioni collettive successive, anche peggiorative.

Da questa configurazione, si può allora ricavare come i trattamenti di miglior favore cristallizzati nell'uso aziendale non siano immutabili sine die, né impermeabili ad eventuali modifiche o soppressioni disposte dalle fonti negoziali sovra-ordinate, cioè dai contratti aziendali e/o nazionali di categoria ma, in ragione della loro natura analoga ai trattamenti economico-normativi dei contratti integrativi aziendali, risultano soggetti alla stessa possibilità di modifica o soppressione che hanno i trattamenti dei contratti collettivi aziendali, da parte di successivi contratti aziendali o nazionali posti in essere dalle parti stipulanti.

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