Cassazione, un nuovo caso sul tema della deindicizzazione
Nota a margine dell' ordinanza n. 18430 dell'8 giugno 2022
La Corte di Cassazione è tornata sul tema della deindicizzazione.
Dopo aver escluso che alla deindicizzazione debba accompagnarsi la cancellazione delle copie cache delle pagine web (nella sentenza depositata l'8 febbraio 2022 n. 3952, commentata qui su Norme e Tributi Plus Diritto, dall'Avv. Candini dal titolo: La Cassazione "alleggerisce" gli obblighi di deindicizzazione dei motori di ricerca) , gli Ermellini della Prima Sezione civile hanno affrontato un nuovo caso con l' ordinanza n. 18430 dell'8 giugno 2022 .
La pronuncia appare ricca di spunti interessanti, tanto più quando si prenda in considerazione il caso di deindicizzazione attualmente al vaglio della Corte di Giustizia, oggetto delle conclusioni presentate dell'Avvocato generale Pitruzzella il 7 aprile u.s. In controluce, si scorgono nuove prospettive per il diritto alla deindicizzazione e, dunque, un nuovo capitolo della saga del diritto all'oblio, un capitolo che si va scrivendo di pari passo con il processo di responsabilizzazione delle piattaforme attualmente in corso nell'Unione europea.
La vertenza nasceva dal ricorso proposto da un noto motore di ricerca avverso la sentenza del Tribunale di Milano che disponeva la deindicizzazione della notizia del legame di parentela dell'interessato con un appartenente ad associazione di tipo mafioso, condannando altresì il motore di ricerca al risarcimento del danno morale.
La notizia, prima di propagarsi sul web, era stata diffusa da un collega di lavoro dell'istante, poi condannato per diffamazione con sentenza divenuta definitiva. La richiesta di deindicizzazione rivolta dall'interessato al motore di ricerca era rimasta inascoltata e, così, l'intervento della Corte meneghina, che, data la lesività della notizia accertata come falsa dall'autorità giudiziaria penale, riteneva sussistente l'illiceità del trattamento. Di qui, il diritto dell'istante alla deindicizzazione dei contenuti rinvenibili a partire dal suo nome, inclusi quelli riferibili a siti gestiti da altri motori di ricerca.
Di qui, ancora, la responsabilità del gestore del motore di ricerca ex art. 2043 c.c. e la condanna al risarcimento del danno morale "per le sofferenze patita dalla vittima in ragione della perdurante diffusione dei dati negativi", liquidate in via equitativa nella somma di 25.000 euro.
In punto di responsabilità, la Corte milanese affermava l'inapplicabilità del d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70 , la fonte normativa che, recependo la Direttiva sul commercio elettronico del 2000, ha disciplinato la responsabilità dei prestatori di servizi della società dell'informazione. Pur inquadrando il gestore del motore di ricerca come un hosting provider, infatti, la Corte riteneva inapplicabile il regime di responsabilità ivi previsto. Proprio su questo si è soffermata la Suprema Corte, mettendo in luce come il d.lgs. 70/2003 fosse, invero, applicabile.
Si legge, infatti, nell'ordinanza in commento: "questa Corte ha già affermato, con principio da cui non vi è ragione di discostarsi, che il prestatore del servizio di hosting è responsabile con riguardo al contenuto delle informazioni ai sensi del d.lgs. 70/2003, art. 16 , quando: a) egli ‘sia effettivamente a conoscenza del fatto che l'attività o l'informazione è illecita' e per quanto attiene ad azioni risarcitorie ‘sia al corrente di datti o di circostanze che rendono manifesta l'illiceità dell'attività o dell'informazione'; oppure b) egli non ‘agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso' appena ‘a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti".
Nel caso in esame, data la comunicazione eseguita dall'istante al motore di ricerca, rilevava, in particolare, la prima fattispecie di responsabilità.
La sentenza di merito, però, non è cassata: pur muovendo dall'erronea inapplicabilità del d.lgs. 70/2003, vi si afferma la responsabilità del gestore del motore di ricerca. Rivista la motivazione, il decisum è conforme a diritto.
La sentenza di merito non è cassata neanche con riferimento all'estensione dell'ordine di deindicizzazione a contenuti riferibili a siti gestiti da altri motori di ricerca, per i quali – secondo l'argomentazione del giudice del merito, ritenuta idonea dalla Suprema Corte – "comunque la società fornisce agli utenti i riferimenti necessari per identificarli", né quanto alla liquidazione equitativa del danno, poiché "deve, al riguardo, considerarsi che il danno morale in presenza di una lesione ai diritti personalissimi, come quelli invocati dal soggetto leso, è per definizione un danno che ‘non può essere provato nel suo preciso ammontare', ai sensi dell'art. 1226".
Emergono, dunque, una serie di elementi, quantunque non propriamente nuovi, certamente utili per comprendere la portata del diritto alla deindicizzazione: ove il gestore del motore di ricerca sia stato informato dell'illiceità del contenuto accertato come falso in una sentenza penale, si applica il regime di responsabilità previsto per gli hosting provider; la deindicizzazione può ben estendersi a contenuti riferibili a siti gestiti da altri motori di ricerca e il danno che si determina "per definizione" non può essere provato nel suo preciso ammontare e dev'essere liquidato in via equitativa. Come anticipato, però, c'è di più. Occorre soffermarsi sulla fattispecie concreta venuta in interesse.
La deindicizzazione veniva invocata con riferimento ad una notizia accertata come falsa dall'autorità giudiziaria penale. Il punto, dunque, era la veridicità della notizia in sé e non, come di solito accade, il lasso di tempo trascorso dalla prima diffusione della notizia.Giova ricordare che il diritto alla deindicizzazione è una delle declinazioni dell'ormai celebre diritto all'oblio, che, come è noto, ha tre significati. Nella sua formulazione originaria, è il diritto a non veder ripubblicate vicende un tempo note quando sia trascorso un notevole lasso di tempo. È il diritto "al segreto del disonore" affermatosi all'epoca della carta stampata.
Nel suo secondo significato, invece, è il diritto alla contestualizzazione delle informazioni affermatosi con l'avvento di Internet e connesso all'esigenza che le notizie reperibili in rete, legittimamente pubblicate molti anni prima, siano ri-collocate nel contesto attuale. Infine, nel suo terzo significato, il diritto all'oblio è il diritto alla cancellazione dei dati personali e, dal leading case Google Spain in poi, il diritto a non essere trovati facilmente on line.
In altri termini, il diritto a che determinate notizie non vengano più messe a disposizione del grande pubblico mediante la loro inclusione in un elenco rinvenibile su Internet a partire dal nome dell'interessato e tramite un motore di ricerca. Insomma, il diritto alla deindicizzazione.
Finora, il diritto all'oblio ha rappresentato una situazione giuridica soggettiva strumentale alla tutela dell'identità dell'individuo nel tempo. Allorché la deindicizzazione venga invocata con riferimento ad una notizia falsa, invece, il focus si sposta e diviene l'esattezza del dato.
Simili ipotesi stanno acquisendo un'importanza sempre maggiore. Lo si evince dall'ordinanza appena esaminata, ma anche dal caso sottoposto dalla Corte federale di giustizia tedesca alla Corte di Giustizia, menzionato in apertura (sul punto, si consenta di rimandare al contributo della Prof.ssa Avv. Giusella Finocchiaro e del Prof. Avv. Oreste Pollicino recentemente pubblicato su Il Sole 24 Ore, dal titolo: " Informazione Online
Deindicizzazione, nuovi oneri in capo ai motori di ricerca ".
Il rinvio pregiudiziale ha ad oggetto due quesiti. Mentre il secondo riguarda la rimozione di miniature dai risultati di una ricerca per immagini, il primo verte proprio sullo scenario in cui la persona interessata contesti la veridicità dei dati trattati e chieda, per tale ragione, la deindicizzazione dei link che rinviano a contenuti editi da terzi in cui figurano questi dati.
Ciò che più rileva è che, come sottolinea l'Avvocato generale nelle sue conclusioni, "laddove venga in dubbio la veridicità dell'informazione trattata dal gestore del motore di ricerca, la questione del bilanciamento dei diritti fondamentali in gioco si pone (…) in termini del tutto peculiari".
Il diritto alla deindicizzazione implica il bilanciamento tra il diritto alla protezione dei dati personali del singolo e la libertà di espressione, declinata nella libertà della collettività di continuare ad accedere all'informazione mediante il motore di ricerca. Nel caso della deindicizzazione di una notizia non veritiera, come pure afferma l'Avvocato generale, "potrebbe probabilmente sostenersi che in realtà il diritto di informare e il diritto di essere informati non entrano neanche in gioco, non potendo questi ultimi ricomprendere il diritto di diffondere e di accedere a falsità".
E non solo: "può più semplicemente osservarsi che tale diritto, nella sua duplice valenza, attiva e passiva, se riferito ad un'informazione falsa, non può comunque essere posto sullo stesso piano dei diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla tutela dei dati personali. In questo caso, infatti, opera un criterio di prevalenza radicato in uno dei valori fondamentali dell'Unione europea, che è quello della dignità umana". Ecco, dunque, che si delinea un diritto alla deindicizzazione dai connotati nuovi.
Ma non è tutto: occorre considerare l'impatto sui provider, i cui obblighi stanno per essere significativamente rinnovati e ampliati dal pacchetto normativo rappresentato dalle proposte di Regolamento Digital Markets Act e Digital Services Act.
L'ordinanza della Cassazione è largamente incentrata sui profili di responsabilità del provider, ritenuto responsabile e condannato al risarcimento del danno per non aver rimosso il contenuto a seguito della segnalazione da parte dell'interessato dell'illiceità della notizia, accertata come falsa dall'autorità giudiziaria.
Questi elementi ricorrono anche nel caso all'attenzione della Corte di Giustizia, in cui, però, manca la componente dell'accertamento della falsità della notizia da parte dell'autorità giudiziaria. In questa ipotesi, secondo l'Avvocato generale, il gestore del motore di ricerca, "in virtù del ruolo che svolge nella diffusione dell'informazione e delle responsabilità che ne derivano, è tenuto a effettuare le verifiche dirette a confermare o meno la fondatezza della domanda e che rientrano nelle sue concrete possibilità". Per sfuggire al pericolo di trasformare il gestore del motore di ricerca in un "giudice della verità ", l'Avvocato generale propone una "proceduralizzazione dell'esercizio del diritto alla deindicizzazione".
L'Avvocato generale muove dal presupposto del ruolo di gatekeeper dell'informazione svolto da alcune piattaforme, adoperando un concetto che inevitabilmente richiama il Digital Markets Act.
D'altra parte, il Digital Services Act introduce nuovi obblighi in capo alle piattaforme in termini di trasparenza, contrasto a contenuti illeciti e tutela degli utenti. Tra questi, anche l'obbligo per i prestatori di servizi di hosting di predisporre meccanismi che consentano a chiunque di segnalare al provider contenuti ritenuti illegali. Alle segnalazioni così ricevute, dovrà seguire la decisione del provider, da adottare in modo tempestivo, diligente e obiettivo.
Questo il quadro in cui si colloca quella che rappresenta, forse, una nuova stagione per il diritto all'oblio.
*a cura della Dott.ssa Giorgia Bianchini, DigitalMediaLaws
Avv. Alessandro Benedetti - Partner BLB Studio Legale e Dott.ssa Yvonne Suma - Trainee BLB Studio Legale
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